31 mar 2013

Ruben Alejandro Botta

Il Tigre non è esattamente la squadra più nota del continente sudamericano, anzi si può dire che la sua popolarità superi a stento i confini nazionali argentini. Nonostante questo negli ultimi anni si è rivelata spesso come protagonista a sorpresa. Con Diego Cagna in panchina ha sfiorato due titoli (storico lo spareggio a 3 con San Lorenzo e Boca Juniors perso per 1 solo gol di differenza reti) e nel 2012 con Nestor Gorosito è passata da lottare per non retrocedere a giocarsi il campionato all'ultima giornata e a disputare la finale di Copa Sudamericana.

Figura assoluta dell'anno magico è stato Ruben Botta, talento mancino classe 1990 che con le sue giocate ha trascinato il Matador soprattutto in Copa.
Il ragazzo di San Juan cresce calcisticamente nelle giovanili del Boca, sua squadra del cuore, ma viene scartato e nel 2008 inizia a giocare nella prima squadra del Tigre. I numeri li ha sempre avuti, ma problemi di inserimento e continuità ne hanno limitato la crescita. Nestor Gorosito ha puntato seriamente su di lui nel campionato decisivo per salvare la squadra ed è stato ripagato.
Chiariamo che il Tigre non è una squadra spettacolare nè piena di talento. L'allenatore ha impostato un gioco pragmatico e fisico che punta su difesa e calci piazzati per vincere le partite. In questo contesto non deve stupire se Botta non mette insieme dati statistici da lasciare a bocca aperta (alla voce Lamela potete capire benissimo il concetto), il suo compito è di dare imprevedibilità a una formazione abbastanza monotematica e monoritmo, raccogliendo letteralmente quello che può anche in relazione al livello non eccelso dei suoi compagni (leggere la rosa del Tigre).
Come ruolo il ragazzo è un attaccante esterno o una seconda punta, molto abile nello smarcarsi e nel cercare gli spazi migliori in cui essere servito, anche se attacca poco la profondità. La sua competenza tattica è una chiave fondamentale delle sorti del Tigre, nonchè l'aspetto più sorprendente del suo bagaglio di qualità. Mobile, agile, scattante e con una spiccata tendenza all'uno contro uno, non è certo un regista offensivo o un esterno tattico di fatica. Di grande personalità, tende a svariare sull'esterno, specie a sinistra. Tecnicamente ha ottimo controllo e ottimo dribbling, vede abbastanza il gioco, ma non eccelle nel tiro come dimostrano anche i pochi gol segnati, anche se si è dimostrato freddo nelle conclusioni in area.

Il suo sogno in Argentina è sempre stato di giocare nel "suo" Boca, ed uno dei motivi per cui è arrivato a scadenza di contratto è che aspettava una chiamata da Buenos Aires.
Il precontratto con l'Inter lo proietta in un calcio del tutto nuovo. Come risponderà?


11 mar 2013

"Wake me up when this season ends"



Doveva essere la stagione della rinascita, all'insegna di un progetto nuovo, giovane ed economicamente sostenibile. Via contratti pesanti, giocatori il cui rendimento rapportato allo stipendio non era considerato sufficiente e dentro giovani di prospettiva affiancati da qualche elemento di esperienza. Alla guida il tecnico che ha stregato Moratti e gran parte dei tifosi interisti grazie alle prestazioni della Primavera nerazzurra. Un allenatore giovane, con idee chiare ed estremamente funzionale alla politica societaria. Doveva.

A quasi dieci mesi di distanza il risultato fornito dal campo di gioco è impietoso. Il fallimento si preannuncia su tutta la linea e salvo miracoli, leggi un impossibile terzo posto, si tratta di un altro, ennesimo anno buttato via. Un'altra occasione persa per porre delle solide basi da cui ripartire nei prossimi anni, per dare stabilità a livello tecnico e dirigenziale. In fondo è inutile pure nascondersi dietro all'obbiettivo Champions League: quei trenta milioni in entrata farebbero la differenza sul mercato, e non poco, ma che altro rimarrebbe? È una rosa che può anche solo pensare di essere pronta ad affrontare la Champions League dei Real Madrid e dei Bayern Monaco? Trenta o quaranta milioni permetterebbero di sistemare le innumerevoli mancanze di una squadra che non ha nè capo nè coda?

Poteva essere l'occasione per tracciare un nuovo sentiero, per tracciare delle linee tecnico-tattiche da seguire negli anni a venire e cercare di impostare un'idea di gioco propositiva che all'Inter non funziona da anni. Poteva. Perchè a fine agosto è emersa la sopravvalutazione di una rosa probabilmente già allora inadeguata per competere su tre fronti e soprattutto è emersa la paura di osare ai livelli societari più alti. Ci si è trovati di fronte ad un bivio e i dirigenti, in totale accordo con l'allenatore, hanno preferito puntellare la rosa con elementi di esperienza anzichè giovani prospetti utili alla causa a breve e soprattutto a lungo termine. Antonio Cassano è l'emblema di una scelta disperata (e dissennata) di provare a ottenere ancora qualcosa da quelle vecchie glorie a cui il Presidente in primis è ancora troppo affezionato per rinunciare e un allenatore esordiente come Stramaccioni ha dimostrato di non avere nè la giusta dose di follia, nè tantomeno la personalità per contraddirlo e operare di testa sua.

La stagione è nata bene ed è continuata così fino all'ormai famigerata vittoria di Torino. Da lì in poi è iniziato un calvario che non accenna a terminare e il mercato di gennaio, da bombola d'ossigeno, si è trasformato in una bomba ad orologeria che non ha tardato a esplodere. Il colpo di grazia è ovviamente arrivato con l'infortunio di Diego Milito, ma sarebbe oltremodo riduttivo limitarsi ad analizzare quanto sta succedendo soltanto sulla base del suo stop. Dalla vittoria con la Juventus l'Inter ha smesso di essere squadra. Appagati forse, oppure già svuotati nelle energie, i nerazzurri hanno perso grinta, gambe e soprattutto idee. Con loro, l'allenatore, perchè lo Stramaccioni che è andato a violare lo Juventus Stadium con tre punte e che era riuscito a dare una parvenza di gioco ad una squadra con Mauro Zarate e Diego Forlan in attacco, ha improvvisamente smarrito personalità e lucidità, inventandosi un'Inter camaleontica: una non squadra che ha cercato di vivere sulle debolezze altrui, finendo per esporre con disarmente facilità e continuità il proprio fianco. Persi gli equilibri e persa la punta, è stato spazzato via anche tutto il resto, regalandoci una squadra che non finisce mai di stupire in negativo.
 
L'infortunio di Milito merita qualche parola a parte e ha generato uno scisma tra le file dei sostenitori nero-blu. C'è chi sostiene che sia una variabile imprevedibile e la dose di sfortuna sia soltanto paragonabile alla leggerezza di aver schierato titolare il Principe in una gara dall'importanza relativa. E c'è chi invece sostiene che, sì, un infortunio di questa entità non rientra nelle previsioni che si fanno in sede di mercato, ma che allo stesso tempo la necessità di avere un'altra punta degna di essere considerata tale è evidente non da giugno, ma da trenta mesi fa. Perchè Diego Milito, elemento fondamentale nel dare determinati equilibri e determinate opzioni di gioco, non è nuovo ad infortuni muscolari e soprattutto non si esprime con continuità nel corso di un'intera stagione dall'anno del Triplete. Purtroppo il crack c'è stato ed è arrivato a mercato concluso, quando l'Inter aveva già acquistato Tommaso Rocchi, acquisto su cui è meglio non esprimersi, per non sprecare ulteriore spazio e per non essere volgari.
 
Al di là di questo, il capolavoro della sessione di mercato invernale è senza dubbio stato la cessione di Coutinho al Liverpool. Leggero, inconsistente, incostante, debole: quante se ne sono lette su Philipe in questi anni e quanto se ne leggeranno ancora. Tuttavia era l'emblema del presunto progetto giovani lanciato a parole dalla società, doveva essere uno dei cardini da cui ripartire dopo un'annata disastrosa iniziata agli ordini di Gasperini e portata a termine in modo positivo dallo stesso Stramaccioni, ma non è stato così. Vuoi per infortuni, vuoi per qualche prestazione anonima, vuoi per un feeling mai nato con San Siro, Cou non ha mai avuto la continuità che è doveroso dare a un giovane con il suo talento. Eppure gli sono stati preferiti prima Sneijder (anche sulla sua gestione preferiamo il silenzio stampa) e poi Cassano. Non era adatto al progetto tattico del Mister, si diceva, e allora eccolo schierato ogni volta in una posizione diversa, ogni volta con eccessivi compiti di copertura per provare a coprire le mancanze in altri reparti e in altri elementi della rosa. A gennaio arriva il Liverpool, che offre poco più di dieci milioni, e Cou è ceduto senza grossi rimpianti, neanche da parte di chi non perdeva occasione per lodarlo in conferenza stampa (e solo ed esclusivamente lì).
 
Con le entrate derivate dalla cessione del baby-brasiliano è arrivato Kovacic, altro talento giovanissimo in rampa di lancio. Questa volta un centrocampista centrale, per rinforzare un reparto che la dirigenza si è ostinata per anni a non giudicare inadeguato. Novità? No, nessuna. Anche lui schierato ogni partita in un ruolo diverso, anche lui costretto ad adattarsi a posizioni nuove e compagni diversi per lasciare spazio ad altri. Allora non stupiamoci se i giovani all'Inter non rendono e se l'Inter non è una squadra capace di accogliere un talento, lavorarci un po' su e metterlo nelle condizioni migliori per affermarsi. Il problema è sempre quello ed è ormai inutile nascondersi dietro a giri di parole: nell'Inter sono i giovani a dover lavorare per i vecchi, sono i giovani a doversi sacrificare per sopperire alle mancanze fisiche di chi non è più adeguato per giocare a certi ritmi intere partite e più partite a settimana. Nell'Inter, in questa Inter, un giovane non si può inserire in un contesto tattico collaudato in cui potersi esprimere libero da pressioni e Stramaccioni è complice di questa situazione. Lo ha fatto con Coutinho, lo sta facendo con Kovacic e lo ha fatto con Benassi contro il Bologna.
 
Proprio la partita contro i felsinei è stato purtroppo il manifesto migliore (peggiore) per lo spot che sta offrendo la squadra nerazzurra: un'accozzaglia di giocatori schierata in ordine sparso, senza idee, senza affiatamento e con una confusione in testa che probabilmente neanche Freud saprebbe risolvere in tempi brevi. È terminata l'era del camaleonte, ma ne è iniziata un'altra in cui l'unica differenza è un modulo, o pseudo tale, fisso, ma in cui ci sono giocatori schierati fuori ruolo e in cui le distanze continuano ad aumentare, minuto dopo minuto, partita dopo partita. Sono bastati quarantacinque minuti d'orgoglio a Catania per convincersi che quella è la strada da seguire, che Stankovic è un giocatore che può essere ancora schierato titolare, che Palacio può risolvere tutto da solo e che dalle fasce può arrivare la spinta decisiva per l'utopica rincorsa al terzo posto. Ma è bastato poco per far crollare l'ultimo castello di carta di una stagione che si preannuncia come una delle peggiori della storia recente nerazzurra, come l'ennesima in cui ci si è rifiutati di analizzare i problemi alla base, partendo dalla società, proseguendo per il corpo tecnico e terminando con il parco giocatori.
 
Ad alcuni di questi dedico un ultimo grazie, per quanto fatto in questi splendidi anni di sofferenze e storiche vittorie, invitando loro e chi ancora li difende, allenatore e Presidente prima di tutti, a una doverosa presa di coscienza. Gli anni passano e il calcio cambia, voler continuare a essere centro nevralgico del progetto è egoismo, presunzione o incompetenza. C'è modo e modo per terminare una carriera e quello intrapreso da alcuni di loro è, a mio modesto parere, quello sbagliato. Ci sono cose che vittorie, sconfitte, trofei e record di vario genere non possono regalare: rispetto e affetto dei tifosi sono alcune di queste e purtroppo, o per fortuna, non sono eterne. Speriamo qualcuno lo capisca prima di oltrepassare il punto di non ritorno.