29 apr 2014

Mazzarri, la difesa a 4 e il mercato

Walter Mazzarri, come noto, ha come tratto distintivo lo sfruttamento della difesa a 3 nei suoi moduli tattici, una specie di dogma legato alla convinzione che con quella disposizione, declinata sia nel 3-5-2 che nel 3-4-3, si copra nel modo migliore il campo e quindi si sviluppi al meglio il gioco.
Il tecnico dell'Inter ha tuttavia dichiarato in una recente conferenza stampa di stare pensando di lavorare durante la pausa estiva su moduli alternativi che prevedano una difesa a 4, in particolare sul 4-3-1-2 e sul 4-3-2-1. Una richiesta costante dei tifosi e forse della nuova proprietà, un passo indietro nell'integralismo personale per aprirsi a una prospettiva più internazionale.
L'esperimento è rimandato all'estate per avere il giusto tempo. Si sa quanto Mazzarri sia scrupoloso, ma in questo caso ha molta rilevanza la delicatezza nel suo incarico in nerazzurro. In questa stagione ha dovuto investire grosse energie per inculcare alla squadra i suoi principi di gioco e far assimilare gli schemi fondamentali del suo credo. Solidificate in tutto l'anno le basi, cioè il 3-5-2 e il 3-4-3, sarà più facile poi sviluppare varianti utili alla bisogna. Specifichiamo che il tecnico ha parlato di varianti, quindi meglio evitare voli pindarici su difese a 4 più o meno fisse nel futuro immediato dell'Inter.

Importante è evidenziare quale sia il punto di partenza del futuro lavoro del tecnico di San Vincenzo nell'ottica del nuovo schieramento. C'è infatti un particolare anello di congiunzione tra il modulo a 3 e quello a 4 che permetterebbe a Mazzarri di apportare solo variazioni minori al suo progetto generale, cambiando la forma, ma mantenendo intatta la sostanza nel suo gioco.
L'idea è di sfruttare il vertice basso del centrocampo davanti alla difesa a 4 per replicare l'avvio dell'azione dato dal difensore centrale della difesa a 3. Il giocatore quindi in fase di possesso si abbassa tra i due centrali che si allargano favorendo la circolazione palla. Un escamotage chiaramente non nuovo per chi segue il calcio, portato avanti negli ultimi anni soprattutto dalla scuola spagnola.
La mente va immediatamente al Barcellona e a Guardiola, con Busquets come referente in campo, ma è solo il più famoso degli esempi. Ovviamente Pep ha portato il suo credo anche a Monaco e spesso si vede il mediano basso (Schweinsteiger, Thiago, Lahm) giocare tra Dante e Boateng. Ernesto Valverde, attuale tecnico dell'Athletic Bilbao, è stato uno dei primi a rendere nota questa idea di uscita dalla difesa e Ander Iturraspe oggi ne è un magnifico interprete. A Roma l'esempio è stato trapiantato da Luis Enrique e raffinato da Rudi Garcia. Persino Klopp qualche volta ne ha fatto uso a Dortmund, come Brendan Rodgers a Liverpool. Restando in casa Inter, Stramaccioni ha affidato questo ruolo a Cambiasso in Torino-Inter.
La chiave è puramente tattica, ma permette di schierare un difensore in meno e avere più qualità sul primo passaggio. Il vantaggio per Mazzarri sta nella possibilità di cambiare formazione, acquisendo imprevedibilità e adattabilità, senza perdere il grosso della sua base di lavoro.

Fondamentale diventa sul mercato identificare il giusto giocatore per il ruolo. Mazzarri nel post partita di Inter-Napoli ne ha fornito un identikit: un metodista bravo, per farla breve un De Rossi.
Questo ovviamente non significa che a Milano arriverà il ragazzo di Roma, ma come si diceva prima De Rossi in Italia è il migliore (e per certi versi l'unico) interprete del ruolo, proprio per la sua esperienza con un allievo di Guardiola come Luis Enrique. Il tecnico spagnolo non ha certo lasciato un grande ricordo nel pubblico romanista, ma ha regalato al giocatore il suo ruolo ideale. Citare De Rossi è un modo rapido per spiegare cosa si intende, visto che in Italia lo conoscono tutti.
Quali sono quindi le caratteristiche dcisive per questo particolare ruolo?
Innanzitutto capacità tattiche e di lettura dell'azione. Il giocatore deve essere bravo a vedere il gioco, capendo quando abbassarsi tra i centrali sia in fase di possesso per aiutare il giro palla sia in fase di non possesso per dare manforte in marcatura, tuttavia deve fare attenzione a non abbandonare la sua posizione di centrocampista, trovando il momento di salire per spostare il baricentro della squadra. Tecnicamente deve possedere doti di regia e magari il cambio di gioco per essere pronto a sfruttare punti deboli ribaltando l'azione. Fondamentale è saper giocare a due tocchi, sia per velocizzare il ritmo del possesso che per eludere il pressing. Fisicamente non serve possieda grande intensità e corsa, ma deve farsi valere in marcatura e nel recupero palla. Meglio sia anche forte di testa per aiutare i centrali. Il tiro non è indispensabile, ma è un interessante plus per completare le opzioni. Considerata la posizione arretrata può infatti trovarsi ad avere spazio ed è importante poterlo sfruttare per far male agli avversari.
Vi viene in mente qualcuno? Vi sentite di escludere alcuni dei nomi che sentite di solito?

Specifichiamo infine che parliamo di un lavoro tattico abbastanza particolare, che va provato e spiegato attentamente. Non è infatti una prassi così diffusa e comune da risultare immediata nemmeno in Europa, se non probabilmente in Spagna, figuriamoci in Sudamerica o in altri continenti.


14 apr 2014

Le esultanze polemiche non sono nate nel 2014

Le esultanze fanno parte del gioco del calcio. Anzi, ne sono la parte più istintiva, genuina ed emozionale, anche per il loro legame intrinseco coi gol che, alla fine, sono il motivo per cui si mette in piedi tutto l'impianto tecnico a ogni livello.
Spesso hanno un significato, che può essere legato al contesto della partita. Un banale Sampdoria-Inter di una domenica pomeriggio qualunque passerà alla storia per l'esultanza di Mauro Icardi al gol che ha sbloccato la partita. Un'esultanza già vista molte volte, che ha assunto agli occhi di tutti una connotazione provocatoria al limite dell'accettabile, per primo all'occhio dell'arbitro Valeri che subito ha ammonito l'interista. Segue ovvia coda polemica con giudizi morali e personali che esulano dal contesto tecnico e lasciano abbondantemente il tempo che trovano, ma stupiscono per la tempistica. Veramente chi segue il calcio si stupisce per una cosa simile e si sente in dovere di giudicare?

Visto il polverone suscitato, comunico che le esultanze polemiche non sono nate nel 2014. Al contrario negli ultimi anni se ne sono viste diverse, ad alto livello, e quasi tutte sono scivolate via molto più agilmente nell'ottica collettiva, soprattutto nel giudizio etico.
Qualche esempio.

Ronaldo, Inter-Milan
 
Adebayor, Manchester City-Arsenal

Ibrahimovic, Inter-Milan

Maresca, Torino-Juventus

Neville, Liverpool-Manchester United

Ibrahimovic, Inter-Lazio

Osvaldo, Lazio-Roma

Pogba e Tevez, Fiorentina-Juventus

Suarez, Everton-Liverpool
Totti, Inter-Roma

Teo Gutierrez, Boca Jrs-Racing

Tevez, River Plate-Boca Jrs

Totti, Roma-Lazio
Van Bommel, Real Madrid-Bayern Monaco


Menzione speciale:

Mazzone, Brescia-Atalanta


In collaborazione con G.B.

13 apr 2014

Tevez a la Selección! O forse no?

In Italia non siamo nuovi a sommosse popolari per la convocazione di un giocatore agli imminenti Mondiali di calcio. Mesi e mesi di propoganda tra siti internet, giornali e salotti tv, con gli inevitabili schieramenti di parte a dare vita a interminabili discussioni. Pro, contro, statistiche, teorie apparentemente inconfutabili, interviste a vecchie glorie o a passanti di qualche rinomata via cittadina: non ci facciamo mancare nulla.
Negli ultimi tempi, tra codici etici e prove tv che si trasformano in moviole, i media italiani hanno dato una certa visibilità anche a un'argomento che da mesi tiene banco dall'altra parte dell'Oceano Atlantico: Sabella deve convocare Carlos Tevez?

Inevitabile la presa di posizione dei medesimi a riguardo, con l'Apache che merita a tutti i costi la Seleccion e l'intero popolo argentino sull'orlo della rivolta pur di convincere il tecnico ex-Estudiantes a portarlo assieme agli altri 22 in Brasile: il giocatore è straordinario, sposta gli equilibri e alla massima rassegna internazionale uno come lui non può assolutamente mancare.
Una presentazione della vicenda quantomeno parziale e poco equilibrata, influenzata inevitabilmente dalla necessità di esaltare una delle stelle del nostro campionato, attuale capocannoniere del torneo e leader tecnico e carismatico della prima della classe.
Tuttavia, nel tentativo di mettere un po' di ordine nell'intera vicenda, un'analisi più approfondita sul rapporto Tevez-Argentina ci sembra cosa buona e giusta.

Com'è stata finora la stagione di Tevez?
L'apporto dell'Apache nella stagione della Juventus è stato finora fondamentale, grazie alle note caratteristiche tecniche, atletiche e tattiche della punta ex-Manchester City. Arrivato in Italia dopo gli alti e bassi inglesi, l'argentino ha ritrovato quel pizzico di vita latina che gli ha permesso di convogliare la maggior parte delle sue attenzioni verso il terreno di gioco, pur ammettendo di aver probabilmente apposto la firma sul suo ultimo contratto europeo, prima del ritorno all'amata Bombonera. Tevez ha impiegato poco a farsi conoscere dal pubblico italiano e soprattutto a entrare in sintonia con i movimenti offensivi richiesti da Conte, trovando fin da subito e con buona regolarità la via del gol. Complice un livello medio sempre più basso, l'Apache si è dunque affermato come uno dei migliori giocatori della Serie A, confermando però le difficoltà in campo europeo: dettaglio non trascurabile, considerando che il suo acquisto è stato effettuato proprio per migliorare il deludente ruolino di marcia della Juve in Champions League.
Le stagioni travagliate al City, tuttavia, hanno consegnato al calcio italiano un Tevez abbastanza lontano dal fenomeno di grinta, agonismo e tecnica ammirato sui campi argentini, brasiliani e inglesi. Più maturo, certamente, ma meno puro, genuino e dominante.

Qual è il rapporto tra Tevez e l'Albiceleste?
Il rapporto tra Carlitos e la Seleccion è sempre stato viscerale: il giocatore ha candidamente ammesso di aver optato per l'Europa solo per denaro, di non aver mai sentito nessuno maglia se non quella azul y oro del Boca e quella albiceleste della sua Nazionale. Un amore incondizionato ma ricambiato solo in parte, perchè l'Apache ha sempre dovuto accettare il ruolo di gregario, oscurato dalla stella indiscussa Messi e in buona parte anche da Sergio Aguero, trovandosi spesso costretto a svolgere lavoro sporco per fornire l'equilibrio necessario a sostenere il peso offensivo della squadra. Anche sotto la guida di un suo grande estimatore come Maradona, Tevez ha faticato a trovare lo spazio che meritava ed è stato più volte costretto ad adattarsi a posizioni di gioco poco consone alle sue caratteristiche. Nel complesso, l'Argentina non ha mai saputo, o voluto, sfruttare il meglio del giocatore, neanche quando il bianconero si esprimeva ai massimi livelli della sua carriera.

Perché Sabella ha deciso di fare a meno di lui?
Pachorra ha preso il timone dell'Argentina dopo le deludenti e dolorose campagne di Maradona e Batista, costretto a ripartire dalle ceneri del tracollo nella Copa America casalinga e con l'obiettivo di andare a conquistare il Mondiale in casa degli odiati rivali brasiliani. Impresa non da poco e con elevate percentuali di insuccesso.
Con a disposizione soli tre anni per porre delle basi solide da cui ripartire, l'ex-DT dell'Estudiantes ha deciso di ricominciare dando ordine tanto dentro quanto fuori dal campo di gioco, con un provvedimento su tutti: Messi capitano. Il nuovo corso della Seleccion non può prescindere dal numero 10, ma deve essere in grado di metterlo nelle condizioni ideali per esprimere tutto il suo repertorio, grazie a un gioco impostato su ordine e possesso palla e soprattutto con campioni "umili", giocatori in grado di mettere il proprio talento al servizio del nuovo capitano. Tevez, al di là dei legittimi dubbi legati alla possibile convivenza tattica con Messi, rappresenta il perfetto esempio di ciò che può infastidire Leo: personalità sul terreno di gioco e spalle coperte da un buon appoggio da parte di media e tifosi.
Sabella ha dunque preferito evitare ogni possibile problema optando per giocatori meno ingombranti dell'Apache, in campo e fuori.

L'Argentina ha bisogno di Tevez?
Messi, Higuain, Aguero, Lavezzi, Palacio, Di Maria: nessuna squadra presente al Mondiale potrà vantare il reparto offensivo dell'Albiceleste, con o senza Carlos Tevez. Il Mondiale della Seleccion sarà sì legato a doppio filo con la rassegna iridata del proprio capitano e numero 10, ma a fare la differenza, come spesso accade, saranno l'equilibrio garantito dal centrocampo e la tenuta difensiva, due variabili che già fanno tremare qualsiasi tifoso argentino.
Carlitos può rappresentare un extra, il jolly da mettere sul tavolo in caso di difficoltà, ma non sarebbe di certo il giocatore fondamentale che è per la Juventus o che è stato per il City nei suoi primi anni sulla sponda azzurra di Manchester.

Tifosi e media argentini lo vogliono a qualsiasi costo?
Per le sue umili origini l'attaccante di Fuerte Apache è sempre stato considerato il giocatore della gente, il campione del popolo. L'opposto di Messi lo "spagnolo", quello cresciuto nella bambagia catalana che non sente abbastanza le partite della Seleccion.
Tuttavia l'appoggio popolare di Carlitos è da ricondurre soprattutto al suo status di idolo del Boca Juniors. I tifosi xeneizes, che amano identificarsi come "la mitad mas uno" del Paese, rappresentano infatti il vero elettorato di Tevez e la voce campanilista che si alza per ricordare a Sabella che il loro ex-giocatore è argentino e merita la Seleccion. Il Boca, oltre alle masse, muove inevitabilmente diversi media ed anche è in questo modo che si spiegano le campagne su giornali e programmi tv.


In conclusione, la scelta di Sabella, giusto o sbagliata che sia, non è solamente calcistica. Un giocatore come Tevez può sempre risultare utile, ma il DT della Seleccion sa che l'eventuale convocazione dell'ex-Boca porta con sè vantaggi e svantaggi. La domanda è: il quid che Carlitos può apportare sul terreno di gioco vale le pressioni e tensioni che il suo ingresso nella lista dei 23 comporterà? Oppure, come sembra orientato a credere Pachorra, meglio rinunciare a quel tocco di garra e imprevedibilità, pur di lasciare l'ambiente tranquillo inserendo dei giocatori comunque validi come Lavezzi o Palacio?

11 apr 2014

Lionel Messi, ossia la dura vita del centro di gravità blaugrana

L'eliminazione del Barcellona ai quarti di Champions League per mano dell'Atletico Madrid ha sollevato un enorme interrogativo in ogni singolo spettatore: chi era quel ragazzo con la maglia numero 10?
Di solito questa domanda nasce da un genuino e positivo stupore per le magie prodotte sul campo da gioco da Lionel Messi, ma in questo caso l'origine è opposta. Sicuri che fosse l'argentino? Troppo fermo, troppo lento, troppo abulico, troppo in balia degli eventi. Troppo essere umano per uno abituato a macinare vittorie mentra aggiorna la casella dei record. La sensazione di qualcosa di strano, di inadatto al contesto, di troppo evidentemente sbagliato per essere casuale è stata netta, ne sono una dimostrazione articoli del genere.
Ma veramente Messi ha un problema? E se si quale?

Partiamo da un presupposto fondamentale. Se la buttiamo sui numeri, Messi vince sempre. Anche quest'anno viaggia sostanzialmente a un gol a partita risultando nei fatti incontestabile. Il ragionamento deve andare quindi oltre le fredde statistiche, che in ogni caso non dicono tutto del rendimento di un giocatore.

Per prima cosa, il 2013 è stato l'anno solare peggiore della sua carriera "matura". Qualche gol in meno del solito, ma soprattutto qualche infortunio e una difficoltà fisica generale che di fatto lo ha costretto alla scena muta nelle partite importanti. Quasi esattamente un anno fa la Pulga non aveva nemmeno preso parte ai quarti di finale contro il PSG sollevando circa gli stessi dubbi tecnico/tattici di oggi. Ai tempi in molti hanno pensato a una preparazione fisica troppo tarata su una partenza esplosiva. Il Barcellona di Tito Vilanova, infatti, aveva regalato ai fan un primo semestre di dominio totale nella stagione 2012/2013 per poi rallentare la corsa, e questo è stato visibile soprattutto nelle condizioni di Messi, che nel 2012 era stato semplicemente inarrestabile.
Il pensiero nella testa di tutti, paragonate le due stagioni, è che quest'anno l'argentino abbia invece tarato la sua preparazione in vista dell'appuntamento della vita, i Mondiali in Brasile, cioè il grande sogno del giocatore, a cui manca solo imporsi con la nazionale per entrare nell'Olimpo, e di tutto il popolo argentino. Imparando dal passato ha preferito non correre rischi, optando per una partenza lenta, anche con qualche intoppo, che però potesse portarlo al top per l'Argentina.
Per quanto possa apparire ingrato "abbandonare" così la causa catalana, bisogna considerare che questo per Messi sarà il terzo Mondiale e ci arriva al massimo della maturità da superstar assoluta. Fallire non è un'opzione, aspettare altri 4 anni per un'occasione sarebbe troppo doloroso. Col Barcellona ha già assommato 21 titoli, con l'Argentina sta a 2 datati 2005 e 2008.
Quindi un primo problema, un primo tarlo nella testa, è di sicuro il Mondiale.

Ci sono però anche una serie di fattori ambientali che nel corso della stagione hanno messo il giocatore in una condizione particolare.
L'arrivo di Neymar non va sottovalutato. Un giovane (1992, 5 anni in meno) universalmente riconosciuto come grande talento, tra i primissimi al mondo, pagato una cifra esorbitante e con uno stipendio da top fin da subito, un acquisto mediatico e futuribile, un giocatore già con uno status importante, ma con una prospettiva anche maggiore. Forse addirittura un erede. Nessuno aveva mai avuto un profilo simile nell'era del Barcellona post triplete, o per motivi di età o per impatto di immagine.
Messi negli ultimi anni non ha avuto un grande rapporto con gli altri attaccanti della rosa. Chiedete a David Villa, che ha giocato da indemoniato ogni partita contro i suoi ex compagni. Lionel del resto è oggi il leader assoluto del Barcellona. Alla decima stagione in prima squadra, con i 21 titoli che dicevamo e oltre 300 gol, a soli 26 anni l'argentino ha chiaramente in mano tutto nella capitale catalana. Gli altri leader storici del gruppo dei canterani sono più vecchi di lui e in ogni caso non possono competere coi suoi numeri, pur traboccando talento. Messi è il Barcellona oggi e lo sarà anche domani, come idea. Se serviranno gol si andrà sempre da lui, nelle partite importanti si aspetterà un suo guizzo. Il centro della scena è e deve essere suo. La sensazione è che non abbia preso benissimo l'arrivo di uno come Neymar, per tutto quello che rappresenta. Parlo di sensazioni perchè non c'è nulla di concreto, per quanto più di una parola si sia spesa sul difficile rapporto in campo tra i due. Fuori la Pulce non è mai risultato un amicone di nessuno, ma sul terreno di gioco spesso sembra proprio ignorare il compagno brasiliano. Non è paura, è marcare il territorio, con una punta e qualcosa in più di permalosità.
La situazione, nella mia ottica, si è inasprita quando Javier Faus, vicepresidente economico del club, ha parlato di un eventuale rinnovo di contratto per il ragazzo, che ha un accordo fino al 2018 col secondo compenso più alto al mondo. "Non c'è alcun motivo di migliorare il contratto a quel signore a cui è già stato adeguato negli ultimi due anni, non possiamo rivedere gli accordi ogni 6 mesi".
Messi (ricordate la permalosità?) l'ha presa bene: "Faus non sa niente di calcio e vuole gestire il Barcellona nel modo sbagliato". Sono ovviamente seguite varie dichiarazioni a ogni livello per spegnere il fuoco, ma non si è ottenuto nulla più che una tregua armata.
Fatti i suoi conti, la Pulce è passata al contrattacco. Sul tavolo del neo-presidente Bartomeu è arrivata una richiesta di rinnovo per 5 anni a 25 milioni l'anno. Giusto per mettere nero su bianco e con diversi zeri chi è il numero uno della squadra e magari del mondo. "Finchè i tifosi e i dirigenti del Barcellona mi vorranno io resterò qui", che tradotto significa se veramente mi volete in squadra adesso pagate, e tanto, perchè magari avete delle idee alternative che non mi piacciono molto, e coi numeri che produco quello stipendio me lo merito. 

Tornando all'attualità e unendo i puntini fin qui disseminati è facile pensare al numero 10 visto nei quarti di Champions come un giocatore in sciopero. Siete liberi di non volermi o preferire altri, ma se io non gioco finisce così. Per ora mi concentro sul Mondiale, poi se si firma il rinnovo ne parliamo. Un messaggio trasversale in mondovisione.
Messi, oggi, è il centro di gravità del mondo blaugrana, ma questo concetto può avere un'accezione positiva e una negativa. Quella negativa si sta manifestando, e forse non se la aspettavano in molti.



P.S.
A margine, proprio l'appuntamento brasiliano potrebbe regalare un'estate infuocata al Barcellona.
In questo contesto di rapporti, immaginatevi Neymar che torna con la coppa, magari da miglior giocatore, magari dopo aver eliminato l'Argentina.

7 apr 2014

I campioni non sempre si impongono giovanissimi

Se uno è un campione si vede da subito, anche a 18 anni.
Uno dei più abusati luoghi comuni del calcio moderno è figlio diretto della sovraesposizione mediatica a cui è soggetto questo sport, visto che chiunque può scoprire e seguire talenti di ogni età. In più la squadra dominatrice di questo decennio, il Barcellona, si è costruita sui giovani fatti in casa, come precedentemente in ultima analisi il Manchester di Sir Alex, regalando comodi e saldi appigli allo slogan.
Il calcio però non funziona esattamente così. Ciò che induce in inganno è la logica ex post, che porta a giudicare l'intera carriera sulla base del punto di arrivo. Facile dire nel 2014 che Zidane è stato un fenomeno, meno nel 1994. Spesso ai giocatori serve tempo, esperienza, una maturazione tecnica e fisica oltre che un ambiente adatto per imporsi.

Considerando giocatori nati dagli anni 70 in poi, quindi protagonisti in tempi recenti, si trovano moltissimi esempi che smentiscono la teoria per cui uno deve imporsi già in giovane età, magari ad alti livelli per dimostrare qualcosa.
Intendiamoci, il talento da qualche parte deve esserci, ma è un concetto assai più teorico e rarefatto. Quindi l'obiezione classica del tipo "ma si è sempre visto che aveva talento" la scartiamo a priori. Perchè talento ne hanno avuto anche tanti altri, che però non hanno i meriti per stare in questa lista.
Pronti per l'elenco?

Zinedine Zidane (1972): esordisce da giovanissimo nel Cannes e ci rimane fino alla retrocessione nel 1992. In totale 71 presenze e 6 gol. Passa al Bordeaux per 460.000 euro, arriva alla Juventus a 24 anni, faticando mesi per inserirsi.
Franck Ribery (1983): il Pallone d'Oro morale 2014 gioca in terza divisione semiprofessionistica con Boulogne, Olympique Ales e Brest fino al 2004. Poi Metz in Ligue 1, Galatasaray e Olympique Marsiglia prima di approdare al Bayern Monaco a 24 anni.
David Villa (1981): gioca in Segunda Division con lo Sporting Gijon B fino al 2001, in Liga con lo Sporting Gijon fino al 2003. Ancora due anni di Saragozza prima di trasferirsi al Valencia a 24 anni. Poi il Barcellona a 29.
Zlatan Ibrahimovic (1981): fino al 2001 al Malmö, con anche una stagione in Superettan. 8 gol nella prima stagione all'Ajax, a 21 anni, si trasferisce alla Juventus a 23.
Ruud van Nistelrooy (1976): fino al 1997 in Eerste Divisie col Den Bosch. Arriva in Eredivisie con l'Herenveen a 21 anni, nel PSV a 22, al Manchester anche per problemi fisici a 26.
Didier Drogba (1978): esordio nel Levallois, al Le Mans in Division 2 fino al 2002. Arriva in Ligue 1 col Guingamp a 24 anni, si trasferisce al Chelsea a 26.
Samuel Eto'o (1981): sostanzialmente scartato dal Real Madrid che lo aveva preso giovanissimo, gioca col Maiorca fino al 2004, quando si trasferisce al Barcellona.
Thiago Silva (1984): inizia nella terza divisione del campionato gaucho, dalla Juventude lo prende il Porto nel 2004. Per problemi di salute torna in Brasile e ci resta fino alla chiamata del Milan a 25 anni.
Diego Milito (1979): dopo il Racing arriva al Genoa in Serie B nel 2004. Il primo campionato maggiore nel 2005 grazie al Saragozza. All'Inter a 30 anni.
Douglas Maicon (1981): al Cruzeiro fino al 2004, al Monaco fino al 2006. La chiamata dell'Inter, nello stupore generale, a 25 anni. 
Hulk (1986): in Giappone, in J.League Division 2, fino al 2008.
Roy Makaay (1975): al Vitesse fino al 1997, per poi trasferirsi nella Liga. Al Tenerife fino al 1999 prima della grande storia col Deportivo La Coruña fino al 2003. La Germania, col Bayern, a 28 anni.
Luis Figo (1972): allo Sporting Lisbona fino al 1995, con 20 gol in 169 partite.
Rivaldo (1972): in Brasile inizia in club minori (Santa Cruz, Mogi Mirim) fino alla chiamata del Corinthians a 21 anni. Al Deportivo nel 1996, al Barcellona la stagione successiva, a 25 anni.
Ronaldinho (1980): Gremio fino al 2001, PSG fino al 2003. Al Barcellona a 23 anni.
Arturo Vidal (1987): in Cile, al Colo Colo fino al 2007, in Germania al Leverkusen prima della chiamata della Juventus a 24 anni.
David Silva (1986): nato nel Valencia, gioca fino al 2005 tra Segunda Division B e Segunda Division con Valencia B e Elbar, poi esordisce in Liga col Celta Vigo. Si trasferisce al Manchester City a 24 anni. 
Yaya Tourè (1983): in Belgio, al Beveren, fino al 2004, poi Metalurg Donetsk-Olympiakos-Monaco fino al 2007. A 24 anni al Barcellona, a 27 al City.
Mesut Özil (1988): allo Schalke fino al 2008, con 1 gol in 39 partite. Poi il Werder Brema fino al 2010.
Miroslav Klose (1978): nel 1998 in Fußball-Regionalliga con l'Homburg. Kaiserslautern fino al 2004, poi il Werder Brema. A 29 anni al Bayern. 
Robert Lewandowski (1988) fino al 2008 in terza e seconda divisione polacca con lo Znicz Pruszkow. Lech Poznan fino al 2010, il Borussia Dortmund a 23 anni.
Mario Mandzukic (1987): Marsonia in seconda divisione e NK Zagabria fino al 2007, Dinamo Zagabria fino al 2010. Poi la Germania, Wolfsburg e Bayern a 26 anni.
Luka Modric (1985) Zrinjzki Mostar e Inter Zapresic fino al 2005 in prestito dalla Dinamo Zagabria, ritorna alla base e ci resta fino al 2008. Poi Tottenham fino alla chiamata galactica a 27 anni.
Pavel Nedved (1972): in patria tra Dukla e Sparta Praga fino al 1996, quando arriva alla Lazio.
Filippo Inzaghi (1973):  tra B e C1 Piacenza-Leffe-Verona fino al 1995. Gli servono altre due stagioni tra Parma e Atalanta per approdare alla Juventus, a 24 anni.
Christian Vieri (1973):dal 1992 al 1995 in B con Pisa-Ravenna-Venezia, poi in A con l'Atalanta prima di passare alla Juventus a 23 anni per una sola stagione.
Luca Toni (1977): fino a 23 anni C1 e B con Modena-Empoli-Fiorenzuola-Lodigiani-Treviso, poi Vicenza e Brescia in A, il ritorno in B col Palermo. A Firenze a 28 anni, al Bayern a 30
Frank Lampard (1978): al West Ham fino al 2001, qaundo viene acquistato da un Chelsea ancora da costruire.
Michael Ballack (1976): in 2Bundes e Regionalliga Nordost col Chemnitiz fino al 1997. Conosce la Bundes col Kaiserslautern fino al 1999 quando passa al Leverkusen. Al Bayern a 26 anni.
Thierry Henry (1977): fino al 1999 al Monaco, con cui ha vinto anche un campionato, prima di conoscere la Juventus a 22 anni. Non basso livello, ma il problema è il rendimento: in Francia 28 gol in 141 partite, a Torino solo 3. A 23 anni va all'Arsenal e qualcosa cambia.
Javier Zanetti (1973): in Argentina con Talleres in Primera B e Banfield in Primera Division fino all'arrivo all'Inter da sconosciuto e quasi per caso nel 1995.
Andrea Pirlo (1979): prima di saltare sulla sedia, ricordatevi che non si discute il talento. A 18 anni in B col Brescia, malgrado l'arrivo all'Inter nel 1999 non trova una sua dimensione tecnica fino al campionato 2002-2003, quando Ancelotti lo posiziona definitivamente davanti alla difesa. A 23 anni.

Chiaro che si possono fare altrettanti esempi di campioni emersi giovanissimi in grandi squadre e diventati poi colonne del calcio europeo.
L'importante è non generalizzare, nè caricare troppe pressioni su certi giovani a cui serve tempo per trovare la propria strada.


1 apr 2014

La strana vita calcistica di Oscar de Marcos

La vita di un calciatore alla latitudine di Bilbao è di suo un'esperienza particolare. L'utopia zurigorri ha oneri e onori inscindibili dalla maglia che si indossa per i novanta minuti regolamentari, la quale se fosse ancora senza sponsor sarebbe il veicolo massimo di un certo messaggio di un popolo.
I tempi cambiano, i soldi devono girare, tuttavia il pubblico del (nuovo, a proposito di soldi) San Mames tende ancora a sviluppare un rapporto stretto con i propri giocatori, che sono veri e propri rappresentanti di un movimento. Per questo certe "fughe" da quella che può diventare una prigione nemmeno troppo dorata (in termini di stipendio e vittorie conseguibili) sono vissute sempre con un certo dolore. Vuol dire abiurare, ammainare una bandiera, rifiutare un ideale per smania di realizzazione personale, individuale, spesso concretizzata in assegni corposi. I dirigenti del club, che sanno come gira il mondo, non a caso fissano clausole rescissorie spesso impensabili per i propri gioielli. Comprare una parte di un ideale costa più della sua effettiva rappresentazione fisica.
In questo contesto unico e irripetibile crescono talenti calcistici di sicuro interesse. Vengono svezzati, aspettati e spesso coccolati anche oltre il rendimento effettivo in quanto figli di Bilbao e dell'Athletic. Non sempre messi nelle condizioni migliori, ma pronti a dare tutto.

Oscar de Marcos è esattamente questo: un prodotto dell'ultima generazione di talenti biancorossi pronto a fare quello che gli viene chiesto per la sua squadra.
Classe 1989, esordisce con il Deportivo Alaves nel 2008 prima di passare all'Athletic nella stagione successiva. Malgrado l'impegno fatica a trovare una sua dimensione finchè non incontra sul suo cammino Marcelo Bielsa. Il Loco capisce in fretta che in quella materia grezza c'è un giocatore che fa per lui. La maglia numero 10 vuole essere uno stimolo, ma non è un regalo. Il calcio di Don Marcelo è predicato sul dinamismo, sul movimento verticale degli uomini e della palla e sulla fiducia in un sistema collettivo in cui ognuno porta il suo mattoncino. Richieste esigenti, ma con una finalità collettiva superiore. Nella stagione 2011/2012 de Marcos passa da comparsa quasi dimenticata a titolare e motore della squadra. 57 presenze in una stagione infinita in cui mette in mostra il suo miglior calcio presentandosi di fatto al mondo.

Nel fluido dinamismo dell'allenatore di Rosario si forgia il de Marcos calciatore. Un marchio di fabbrica di qualità, ma che lo lega anche a un destino tecnico particolare. I problemi di ambientamento erano infatti dovuti alla sua dimensione indefinita. Giocatore offensivo di sicuro, ma difficile da inquadrare in un ruolo preciso. Inserito in un contesto di gioco si è trasformato in un jolly, capace di fare bene molte cose e quindi sempre utile.
Oscar nasce come attaccante e ha come caratteristiche distintive la facilità di corsa, la capacità di inserimento, un buon tiro e la tecnica individuale. Nel sistema di Bielsa uno così, se disposto al sacrificio e a seguire i dettami tattici, può sostanzialmente fare tutto. E infatti farà tutto, dall'attaccante esterno, al trequartista di inserimento, all'interno di centrocampo, al terzino sinistro (pur essendo destro di piede). L'imprinting sarà forte e la qualità dimostrata nelle varie situazioni notevole. Tanto che anche Valverde, a due anni di distanza, sfrutta il ragazzo a seconda delle necessità.
Nella stagione in corso de Marcos ha giocato terzino sinistro, terzino destro, trequartista, attaccante esterno e perfino falso nueve. Un giocatore che permette varianti tattiche notevoli, capace di portare qualità e impatto in molti modi diversi. Ha il limite di non essere specializzato e quindi non gioca sempre titolare, ma porta il suo mattoncino per il collettivo.

Facilmente de Marcos è destinato a rimanere all'Athletic, anche per la sua clausola rescissoria attorno ai 30 milioni non trattabili, continuando a fare il jolly. Ma vista la sua storia e viste le idee del club probabilmente è giusto così. In nome di un'idea superiore.