18 nov 2016

Lucas Alario

“El Pipa vieja, el Pipa vieja!”, perché scomodare illustri autori, quando bastano le parole di un tifoso in preda al delirio pochi secondi dopo uno dei più memorabili gol della storia del River Plate? Lucas Alario, el Pipa, con quella rete ha impresso il proprio autografo sulla vittoria della Copa Libertadores e sulla storia di uno dei club più celebri del Sudamerica, trasformandosi tutto d’un tratto da meteora semi-sconosciuta ad attaccante dal pedigree di primo livello. Non male, per chi pochi mesi prima lottava per salvare il Colon dal purgatorio della B Nacional.

Nato nel nord della provincia di Santa Fe, di Alario si può dire molto, ma non che sia un predestinato, perché un ventiduenne classe ’92, che segna 12 gol in 58 apparizioni con il Colon, non rientra propriamente nella categoria. Dopo l’esordio a 19 anni il centravanti di Tostado colleziona infatti soltanto 11 presenze in tre stagioni tra le fila del Sabalero. Confinato in Reserva e dimenticato dalla prima squadra, nel 2013 trova inaspettatamente la titolarità nella Primera Division argentina grazie alla moria delle punte a disposizione di Osella, segnando 3 reti in 21 presenze. Un modesto contributo, vano nel tentativo di far risalire il Colon nella classifica del promedio, nonostante la rete allo scadere dell’ultima giornata contro l’Olimpo, che regala il jolly dello spareggio, poi perso, contro l’Atletico Rafaela.


L’anno successivo ottiene piena fiducia, ma è la B Nacional e Alario è costretto a saltare buona parte della stagione causa infortunio, rientrando soltanto per l’ultima partita contro il Boca Unidos, decisiva per la promozione del club.
Nel ritorno in Primera Division il centravanti santafesino, complice un altro infortunio, riesce a giocare soltanto 10 partite, mettendo a segno 3 reti. Cifre normali, quasi tristi per un giovane attaccante, ma non abbastanza per spaventare Marcelo Gallardo, che vede in lui il sostituto ideale per la punta di diamante del suo River: Teofilo Gutierrez. Un compito ingrato, soprattutto alla vigilia delle semifinali di Libertadores.

In Argentina in molti si sono interrogati riguardo a cosa abbia visto Gallardo in quell’attaccante semisconosciuto, un po’ sgraziato e poco efficace. C’è chi racconta che se ne sia invaghito nel 2014, durante un River-Colon agli albori della sua avventura millonaria, chi dice che sia arrivata una sponsorizzazione da un certo Cesar Luis Menotti, vecchia conoscenza del vice-presidente Patanian, al quale avrebbe riferito: “Lucas Alario è il miglior giocatore del futbol argentino, l’ideale per il River”. Con Teo su un volo intercontinentale diretto a Lisbona, scegliere Alario non si può definire una scelta coraggiosa, quanto piuttosto una scelta folle. Ma il Muneco nella sua esperienza sulla panchina del River Plate ha abituato a colpi ad effetto da trequartista, sorprendendo tutti con richieste all’apparenza insensate e rivelatesi in seguito scommesse vinte a mani basse. Alario, in questo senso, è stato l’erede di Pisculichi, il primo vero grande colpo del Gallardo manager a tutto tondo.

Il resto è storia ormai nota: a pochi giorni dall’approdo a Buenos Aires il centravanti ex-Colon risulta decisivo per la conquista della Copa Libertadores, grazie a prestazioni solide quanto sorprendenti, condite da 2 assist e altrettanti gol nelle quattro partite finali della competizione.

Effetto Gallardo? O più semplicemente la maturità? Chissà, ma da quando veste la maglia della Banda, Alario si è trasformato in uno dei centravanti più interessanti dell’intero panorama sudamericano, mettendo in mostra un bagaglio tecnico, tattico e atletico di tutto rispetto, valorizzato da gol e personalità. Si legge spesso di attaccanti moderni e, se la categoria effettivamente esiste, la punta del River è senza ombra di dubbio tra questi.

Sembra lento, poco mobile, tecnicamente ruvido, senza spunti, però ogni tanto fa gol. Anzi, segna con una certa frequenza. Tutto sommato non è molto lento e forse a livello tecnico non è così male. Qualche sponda in effetti gli riesce. Guarda, anche un dribbling. Questa l’ha spizzata ancora lui? Ma il numero tredici, quello che pressa adesso, è Alario? Come? Ha segnato Alario? Ancora?

Non è il Bichi Fuertes, l’attaccante di riferimento per qualsiasi aspirante centravanti nato in provincia di Santa Fe e tifoso del Colon, è decisamente meglio. Non è neppure Lewandowski, il giocatore europeo a cui viene accostato spesso in patria, ma in effetti il paragone può essere calzante. È un giocatore dal potenziale ancora inespresso, un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, ma che in carriera ha dimostrato di avere la testa e le qualità per ambire all’Europa e al calcio che conta del vecchio continente.
Sotto la saggia guida di Gallardo ha compiuto passi da gigante, affinandosi come punta a tutto tondo, capace con la stessa facilità di giocare sapientemente spalle alla porta e aggredire gli spazi. È un maestro nel “pivotear”, come un vecchio centravanti, e ha l’intelligenza per muoversi con e senza palla, riuscendo ad adattarsi a seconda del compagno di reparto. Senza abusarne, ha dribbling, anche nello stretto, ed è molto più veloce di quanto dia a vedere. Sotto porta è una sentenza e, nonostante arrivi a fatica al metro e ottanta, nel gioco aereo è un pericolo costante. Ma a fare la differenza sono la personalità e la capacità di dare il meglio sotto pressione, come dimostrato in Copa Libertadores.

L’impressione è che sia un giocatore nato per essere sottovalutato, sempre lontano dai riflettori e da apprezzare innanzitutto per intelligenza, personalità e applicazione messe costantemente in campo. Proprio per questi motivi, non stupisce il crescente interesse da parte dei club europei, così come non sorprende la convocazione nella Seleccion da parte di Bauza. Una chiamata criticata, anche aspramente, in Italia e in Europa, ma mai messa in discussione in patria. Ora che Alario sembra aver trovato continuità anche dal punto di vista fisico (i continui infortuni sembrano un lontano ricordo), il trasferimento dall’altra parte dell’Oceano è ormai questione di tempo, prezzo permettendo. Perché è lo stesso tifoso in tribuna durante la finale contro i messicane del Tigres ad aver fissato la cifra, pochi secondi dopo il boato del gol: “Lo vendemo’ a 50 millone’ de dolaré… 80 millone’ de dolaré vieja!”.

15 nov 2016

L'Argentina e la necessità di voltare pagina

Ci sono dei momenti nella vita, o meglio nella storia di una squadra di calcio in cui è importante avere la forza di girare pagina invece di sperare nell'ultimo guizzo. Non è facile per affetto, ottica, voglia di rivalsa di un gruppo che ha personalità e mezzi per imporsi, ma osservando il tutto in modo più freddo e distaccato risulta chiaro come i rischi del rimanere attaccati al passato superino di molto i benefici, specie se si deve lavorare per un obiettivo lontano qualche anno.
L'Argentina si trova esattamente in un momento in cui è necessario girare pagina, tagliare col passato e ricominciare. Anzi, il momento è passato da poco, l'occasione era servita sul tavolo, e si è scelto invece di attaccarsi a questo passato, imboccando una china pericolosissima.

Oggi è facile dare a Edgardo Bauza le colpe per un'Argentina inguardabile, in una crisi di gioco prima ancora che di risultati che non si vedeva da almeno vent'anni. La squadra che con Sabella è arrivata alla finale del Mondiale 2014, in primis per spirito e coesione, è lontana anni luce dal vuoto simulacro che va in campo oggi, Ma il Paton è un bersaglio sbagliato visto che è in carica dal primo Agosto 2016: impensabile che sia un tecnico con la sua storia professionale ad aver distrutto in così poco tempo una squadra che, pur perdendo, si è dimostrata ai vertici del calcio sudamericano e mondiale negli ultimi tre anni.
Semplicemente, tralasciando i discorsi sulla gestione dell'AFA, questo gruppo della Seleccion è arrivato alla fine della corsa, e insistere a chiamarli per l'importanza del cognome (perché sono cognomi importanti, non c'è dubbio) è solo accanimento terapeutico. L'espressione inglese "beating a dead horse" rende bene l'immagine.
Tre sconfitte in finale in tre anni, per di più con dinamiche simili, minerebbero l'ambiente di ogni gruppo. Troppo cocenti, troppo concentrate nel tempo, troppo segnate dalla presenza o meglio dall'assenza non effettiva, ma a livello di incisività di certi giocatori. Per di più subirle in un periodo storico in cui l'Argentina non vince nulla dal 1993, con l'esclusione degli ori olimpici, malgrado abbia spesso avuto selezioni con un tasso medio di talento altissimo (non ultima la generazione attuale), e con in campo l'erede designato di Maradona, che coi club fa incetta di titoli ogni anno, rende il tutto un picco negativo sostanzialmente leggendario. Non sempre si fa la storia dal lato che si vorrebbe, e questi giocatori lo stanno imparando a loro spese.

Quello che serve all'Argentina è un taglio netto con i protagonisti degli ultimi anni. Magari non tutti, perché Messi comunque serve come elemento di riferimento, ma quasi. Un ambiente nuovo, giocatori affamati sia di vittorie che di presenze con la maglia albiceleste, può solo portare cose positive, a ricostruire una squadra e soprattutto una nuova speranza in ottica 2018.
Perché, tra le altre cose, va ricordato che l'ottica attuale dell'Argentina come di tutte le nazionali del mondo è il Mondiale in Russia. La generazione delle sconfitte è figlia degli anni '80 in tutti i suoi elementi principali: significa che nel 2018 sarebbero tutti ultratrentenni all'ultima corsa appesantiti dal fardello di avere un unico risultato, la vittoria, per di più covato dentro per lunghi, lunghissimi anni con le partite di qualificazione da giocare. Un do or die con spiccata propensione verso la seconda scelta.
L'occasione per chiudere un capitolo era servita dopo la Copa America Centenario. Lo scoramento della terza sconfitta in tre anni aveva portato i vari Messi, Agüero, Higuain, Di Maria e Mascherano a pensare al ritiro dalla nazionale, proprio loro che ne sono gli elementi più rappresentativi. Ecco in quel momento invece di movimenti popolari per richiamarli serviva un tecnico con la forza di escluderli, per voltare pagina e fondare una nuova Seleccion. Una cosa che, forse, solo Marcelo Bielsa avrebbe potuto prima concepire e poi portare avanti.
Si è continuato a insistere e oggi l'Argentina si è sgonfiata come un soufflé venuto male.

Il più grande esempio di squadra, anzi di nazione che ha deciso in modo netto di tagliare col passato e chiudere un capitolo viene dai rivali di sempre degli albiceleste. Il Brasile del '50 è il modello della squadra passata alla storia dal lato sbagliato, e che appunto per questo è stata rigettata, smembrata e maledetta, come ha scoperto sulla sua pelle il portiere Moacir Barbosa. Tanto che la Seleção ha persino cambiato maglia dopo la "finale" con l'Uruguay.
Un caso sicuramente estremo, che però ha permesso al Brasile di rinascere, di scoprire una nuova generazione casualmente composta da fenomeni e nel giro di poco tempo di diventare la squadra che conosciamo noi, cioè coloro che non hanno vissuto il '50, ma solo l'epopea successiva della nazionale pentacampeão (che vincerà le edizioni '58, '62 e '70).
Un esempio, il più clamoroso, ma non l'unico. Per citarne un altro la Germania nel 2002 perde la finale del Mondiale (contro il Brasile) e rivede completamente il suo sistema calcio a livello federale, rivoluzionando la struttura della nazionale dalle radici ai giocatori convocati. La nuova generazione ha vinto il Mondiale 2014, inutile che vi ricordi contro chi.

L'Argentina oggi è una squadra di grandi nomi, totalmente svuotati della personalità. Questione di testa, voglia, fame.
Nelle ultime partite è risultato tristemente evidente che anche Mascherano, il capitano morale, ha mollato. Non a parole, ma con l'atteggiamento in campo: mai visto così remissivo, rassegnato alla sconfitta e all'impossibilità di opporsi al destino. Del resto proprio lui, nelle sue oltre 130 presenze, ha perso ben 5 finali con la maglia albiceleste. Un peso enorme, che ha finito per schiacciarlo.
Senza un cambiamento netto di uomini e quindi mentalità il 1993 rimarrà ancora l'ultimo anno vincente per l'Argentina. Il capitano era Oscar Ruggeri, un nome ormai da googlare per la maggior parte degli appassionati di calcio, e i giovani si chiamavano Redondo, Simeone e Batistuta. Per intenderci, nel calcio non c'erano ancora le maglie personalizzate. Sarebbero state introdotte due anni dopo. Praticamente un'era fa.

10 nov 2016

Intervista a Carlo Pizzigoni - Locos per el Futbol

Dopo Storie Mondiali, Carlo Pizzigoni torna in libreria con Locos por el futbol, un volume che è molto più di quello che promette in copertina.
Carlo, noto giornalista, in poco più di 300 pagine racconta la storia calcistica, ma non solo, del continente sudamericano paese per paese, fornendo agli appassionati un punto di riferimento semplice, completo e ricchissimo.
AguanteFutbol l'ha intervistato per cogliere qualche sfumatura in più di un libro che meriterebbe un approfondimento ad ogni pagina.

 - Da dove nasce la tua passione per il Sudamerica? Come molti hai cominciato con un campione per poi allargarti a città, paesi e tessuto socio-culturale?

In realtà no, perché da piccolo non ero affascinato da un campione sudamericano in particolare. Ce n'erano ovviamente tanti, ma nessuno che mi colpisse in modo speciale ecco. C'era un fascino generale per il Sudamerica, questo sì, che nel tempo ho coltivato, fatto germogliare e sbocciare.
La passione è nata in un certo senso per tutto il subcontinente, sviluppandosi poco alla volta con viaggi e visite specifiche mosse dalla curiosità. Argentina e Brasile ovviamente sono stati i primi riferimenti, ma poi ho scoperto molto altro.


 - Leggendo il libro ci si rende conto che gli argomenti trattati sono tanti e meriterebbero ancora più approfondimento visto che si spazia dal calcio in generale, alle varie squadre, ai singoli protagonisti, agli eventi di storia. E questo per ogni paese. Come hai fatto a fare una selezione in così tanto materiale?

Il percorso è stato davvero difficile. Se penso a come mi sono sentito durante la stesura il concetto che mi viene in mente è di aver fatto fatica, fatica fisica a riassumere un insieme clamoroso di informazioni.
Dopo Storie Mondiali la casa editrice mi ha proposto di scrivere di nuovo, e alla fine l'idea è stata una storia del calcio sudamericano che ha come riferimento la Storia critica del calcio italiano di Gianni Brera. C'è voluto tempo per trovare coerenza narrativa, un filo conduttore per il lettore, in modo che il libro non fosse solo un insieme di episodi slegati o curiosi aneddoti fini a sè stessi.
Oltre al materiale accumulato negli anni tra ricordi, racconti, appunti e libri letti ho fatto un viaggio tra Uruguay, Argentina, Brasile e Colombia per arricchire ulteriormente il mio bagaglio di conoscenze. Ne è uscita una mole complessa da scremare, con scelte difficili ad ogni angolo. La stesura è stata travagliata: per fare un esempio, la prima versione del solo Brasile era di 180.000 battute. Un libro a sè stante, da cui ho dovuto per forza di cose tagliare alcune storie, come per esempio il percorso del Santos di Pelé in Libertadores, che ho lasciato come accenno. L'editore del resto, conoscendomi, mi aveva avvisato subito: "Carlo per piacere, non facciamo enciclopedie".
Il problema raccontando del Sudamerica è non cadere nei cliché, non perdersi nei personaggi e ricostruire la realtà dei fatti senza indulgenze o giustificazioni. Ho cercato di restituire un punto di vista realistico puntando alla veridicità, per quanto possibile. Per fare un esempio, la famosa partitella di Garrincha contro Nilton Santos è una bella favola, ma non è mai avvenuta. Eppure se ne parla quasi da settant'anni. Parlando anche di fatti di storia politica e sociale ho riportato soprattutto cronaca, senza approfondimenti che rischiavano di diventare parziali. L'importante era fissare dei punti precisi e dare informazioni fruibili agli appassionati.

- Visto il titolo e la diffusione dell'apodo "Loco" dicci qual è il tuo "Loco" preferito. Anzi, visto che il primo sappiamo già chi è
(Marcelo Bielsa) passa pure al secondo.

La mia passione per Bielsa è nota, e va ben al di là delle sue qualità come allenatore. Nel suo campo è un genio e non lo dico io, ma gente che di cognome fa Puyol, Simeone, Zanetti, Milito e Guardiola. Però tutti quelli che lo conoscono lo definiscono persino superiore come persona. Una figura unica per spessore umano, tecnico e limpidezza. Tanto che avrei quasi paura di incontrarlo viste le aspettative che ormai mi sono creato.
Per citare quindi il secondo scelgo Orestes Corbatta, ala del Racing Avellaneda che per certi versi è stato la risposta argentina a Garrincha, seppur a livelli differenti. Talento straordinario con una parabola clamorosa che lo ha visto finire in miseria a vivere in una stanza proprio dentro al Cilindro di Avellaneda, lo stadio del Racing, in una stanza con solo un materasso e appese al muro le due medaglie delle due edizioni della Copa America vinte con l'Argentina.

- C'è un personaggio di cui volevi parlare e hai invece escluso?

In realtà no, ma per un motivo ben preciso. Di storie singole in Sudamerica se ne trovano all'infinito, ci sono mille suggestioni. Un ottimo esempio è el Trinche Carlovich: una bella curiosità, perfetta da far raccontare a un narratore come Buffa. Volendo se ne trovano anche di più divertenti, ma il mio obiettivo non era un libro di aneddoti.
Ho lasciato solo alcune storie singole in favore degli eventi importanti, quelli generali, per dare importanza alla storia del calcio e alla nascita dei singoli movimenti nazionali. Meno sensazionalismo, più Sudamerica. Il calcio va oltre i personaggi e la mia idea era creare un libro che facesse da trampolino per i lettori verso approfondimenti ulteriori, dando una certa linearità a un complesso notevole di fatti che si intrecciano.

- Un capitolo che mi ha singolarmente colpito è quello sul Cile, un paese con una storia calcistica particolare, segnata dall'incontro con Marcelo Bielsa (ancora lui) nel 2007.
Una tematica importante che emerge da questo libro è che attraverso il calcio i singoli paesi in Sudamerica hanno ottenuto una forma di identità nazionale. La particolarità del Cile è che non l'ha avuta fino al 2007, pur avendo avuto i suoi momenti e i suoi campioni. Prima di Bielsa però non c'era uno stile cileno in cui si identificasse il popolo o che fosse immediatamente riconoscibile dall'esterno, ci è voluto un tecnico argentino con idee forti e una capacità unica di seminare calcio per portare tutto questo. Un tratto che si ritrova anche in altri casi.
In realtà l'identità calcistica cilena avrebbe potuto svilupparsi già negli anni '20 grazie all'opera di Arellano, attaccante e fondatore del Colo-Colo. La sua morte prematura però interruppe il processo, e di fatto nessuno si dimostrò in grado di raccoglierne il testimone fino all'arrivo di un argentino con idee tanto particolari da essere preso per pazzo. Bielsa ha preso in mano una generazione di talenti, li ha uniti con un'idea ben precisa e gli ha indicato una strada. Poi Sampaoli e Pizzi (altri due argentini) hanno condotto in porto la barca portanto al Cile i primi titoli della sua storia.


Si ringrazia Carlo Pizzigoni per la cortesia e la disponibilità.

3 nov 2016

Gallardo ha sempre un piano

Ci sono allenatori che restano alla guida di un club per diversi anni, portando avanti un progetto ed entrando nel dna della squadra per idee, approccio, metodo di allenamento, auspicabilmente anche titoli vinti. Di solito però sono legati a un ciclo ben definito, con giocatori plasmati nel tempo che rimangono portavoci di certi concetti in alcuni casi anche dopo l'addio del tecnico.
El Muñeco Gallardo al River ha indubitabilmente dato un'impronta chiara, netta, sublimata da vittorie pesanti. La differenza rispetto al caso tipico è che ha continuamente rifondato la sua squadra, cambiando uomini, stile di gioco, approccio e referenti trovando sempre un modo per andare avanti e raggiungere livelli di spicco.

Gallardo si è dovuto adattare per necessità. In Argentina anche il River, il club soprannominato millonario per i fasti passati, vive la crisi economica e ormai da anni si trova nelle condizioni di dover gestire la propria rosa, valorizzando talenti da vendere e sfruttando al meglio i grandi di ritorno. A dire la verità l'ex numero 10 ha avuto la fortuna (o forse la bravura) di evitare il periodo più nero, vale a dire quello della gestione Passarella, ma in ogni caso vive alla guida di un club che spesso si trova a fare di necessità virtù: dal 2014 ad oggi Napoleon ha visto partire Funes Mori, Balanta, Vangioni, Mercado, Barovero, Kranevitter, Rojas, Carlos Sanchez e Teofilo Gutierrez per limitarci ai titolari, riuscendo quasi sempre a sostituirli tenendo in piedi la baracca, magari dopo un periodo di transizione per assimilare i cambiamenti.

Ecco, questo va detto chiaramente: Gallardo ha vissuto dei periodi difficili, con risultati costantemente negativi più che altalenanti, ma è sempre rinato grazie a due fattori. Il primo è il credito acquisito con le vittorie, che gli ha permesso di far valere sempre la sua idea con la società, il secondo la sua abilità a trovare nuovi referenti, reinventando la squadra in tempi brevi.

Ragionando per cicli, il primo River di Gallardo è quello che vince la Copa Sudamericana 2014. Il modulo di riferimento è il 4-3-1-2, interpretato con giocatori di qualità, ma con tanta attenzione anche alla quantità. Gli interni, Rojas e Sanchez, un po' centrocampisti e un po' ali, sono elementi fondamentali nelle due fasi e garantiscono l'equilibrio di tutta la formazione. In questa versione del River c'è il primo grande nome pescato dal nulla da Gallardo rivelatosi decisivo: l'enganche della squadra, Leonardo Pisculichi, l'uomo deputato a svoltare le partite con le sue giocate. Piscu, classe '84, è un classico trequartista argentino con un mancino meraviglioso, che ha passato la maggior parte della carriera in Arabia. Gallardo lo vede all'Argentinos Juniors e ci punta senza battere ciglio anche se ha già compiuto 30 anni. Non a caso nella finale della Copa i gol arriveranno dalle sue pennellate piazzate. Altro tratto che diventerà tipico il coraggio nel lanciare i giovani, come Kranevitter e Mammana, che giocherà la finale contro l'Atletico Nacional da terzino destro. Il tecnico infine si dimostra da subito bravo a gestire uno spogliatoio non semplice, con diverse prime donne (tipo Teo Gutierrez) e grandi totem del club (Cavenaghi).

Il semestre successivo, il primo del 2015, è quello della Libertadores. Il percorso iniziale più che difficile è infernale: il River non gira e per qualificarsi alla fase ad eliminazione serve un miracolo di coincidenze. Gallardo, dopo la cessione del suo titolare Rojas, trova una nuova quadratura col 4-2-3-1, puntando chiaramente sulla qualità e sul gioco offensivo. Il primo nome nuovo della formazione è quello di Gonzalo el Pity Martinez, trequartista/esterno mancino classe '93 prelevato dall'Huracan e subito lanciato titolare, fondamentale nel cambio di modulo in quanto più offensivo di Rojas. A centrocampo esplode Kranevitter, che prende in mano la mediana e coniuga regia ed equilibrio con personalità rara. Carlos Sanchez sulla destra fa praticamente tutto e lascia un segno decisivo in ogni partita che conta. L'intuizione di Gallardo di metà stagione si chiama Lucas Alario: per sostituire Teo Gutierrez, attaccante di riferimento della squadra, il Muñeco sceglie un classe '92 del Colon di Santa Fé con una decina di gol in curriculum, quasi tutti segnati in B. Alario lo ripagherà con le reti decisive in semifinale e finale di Copa, e in poco tempo si imporrà come uno dei migliori centravanti locali. Altra intuizione, seppure di brevissima durata, la scommessa su Tabaré Viudez: un fuoco di paglia di poche partite, ma fondamentale per vincere questa Libertadores.
L'abilità di Gallardo come stratega si evidenzia anche in un fatto, non a caso fondamentale per vincere gli scontri diretti nelle coppe: è straordinario nel preparare le gare ad eliminazione. Il suo lavoro di studio e adattamento agli avversari è certosino e porta sempre frutti.

A questo punto per Gallardo inizia una lunga fase di transizione, legata a una vera e propria diaspora di praticamente tutti i suoi titolari. Il River macina giocatori e moduli, non trovando però una dimensione vera e continua fino al campionato 2016/2017.
Oggi l'idea nuova e a quanto pare funzionante è il 4-2-2-2 alla brasiliana, quello del quadrato magico. Alla fine è un 4-4-2, ma dalla metà campo in su ci sono due mediani, due rifinitori e due punte. Gallardo ha scelto di puntare su un gruppo a forte stampo River, tra giovani formati nel vivaio ed elementi di riferimento: Maidana, Ponzio, D'Alessandro insieme a Batalla, Andrade e Driussi. La nuova via piace, è divertente da vedere e sta trovando i primi risultati. Aspettando le coppe, che da sempre sono il vero tavolo da lavoro del Muñeco.

Infatti nel valutare Gallardo e i suoi piani va fatta una riflessione anche sul campionato. Finora nessun titolo è arrivato dai tornei lunghi, e la gestione generale della squadra è sembrata nettamente diversa. Durante Sudamericana e Libertadores il torneo locale era di fatto declassato a laboratorio per effettuare le prove tattiche, che poi hanno portato titoli, ma ora, al quarto campionato da tecnico, serve fare un salto di qualità anche in patria.

13 set 2016

Il trio di centrocampo del Siviglia

Per quanto sarebbe interessante trattare le idee di Sampaoli, questo post mira a fare un passo indietro, parlando ancora di Unai Emery e della struttura del suo centrocampo.
L'allenatore basco è il principale fautore della rinascita (o nascita, dipende da quanto volete essere cattivi) di Ever Banega, e il miracolo è accaduto costruendo attorno all'argentino un reparto che ne assorbisse i limiti, permettendogli di giocare sul talento. Tutto questo rappresenta un tassello importante nell'eterna querelle circa il ruolo del giocatore dell'Inter.

Spiego subito una cosa: il Siviglia di Emery ha sempre giocato col 4-2-3-1, anche prima che arrivasse Banega. Quando parlo di trio di centrocampo mi riferisco quindi al triangolo formato dai due mediani e dal trequartista, che trattandosi del nativo di Rosario è in tutto e per tutto un centrocampista in più piuttosto che una mezza punta.

Dovendo inserire Banega nella sua squadra Emery aveva di fronte un problema: l'argentino rispetto al suo predecessore Rakitic è molto meno propenso all'inserimento in area avversaria e alla conclusione. Senza qualche accorgimento specifico insomma la squadra poteva rischiare di chiudersi troppo su se stessa, su un palleggio difensivo senza sbocchi. Emery è stato bravo a leggere questa eventualità, correndo subito ai ripari.
Parlando per archetipi, l'idea di Emery è più o meno sempre stata fissa e chiarissima. Tre centrocampisti, tre compiti diversi: un mediano difensivo, di posizione, con compiti prettamente difensivi appunto, che desse equilibrio; un regista deputato a tessere la manovra e innescare gli inserimenti; un centrocampista di corsa, qualcuno direbbe box-to-box o shuttler secondo le definizioni più moderne, pronto a fare le due fasi correndo in difesa e inserendosi in area dando peso offensivo. Poi si poteva variare a seconda delle partite e delle necessità tattiche, ma come base i principi erano questi.
Facendo i nomi, i tre erano Krychowiak, Banega e Iborra/N'Zonzi.

Tre ruoli precisi e complementari.
I compiti di Krychowiak sono i più intuitivi (che non vuol dire semplici). Il polacco era il giocatore deputato a dare equilibrio alla squadra, coprendo la zona davanti alla difesa in ogni momento in modo da non lasciare voragini per le transizioni avversarie. In più chiaramente aveva la responsabilità della prima costruzione, a meno che non si abbassasse Banega.
Il rosarino era il motore di tutto. Banega è un giocatore atipico, un regista offensivo di costruzione con qualità superiori. I problemi sono due: come tutti i giocatori di qualità tende a prendersi le sue pause, che vanno coperte; ha un ottimo istinto per smarcarsi in modo da ricevere palla, ma il suo raggio d'azione, a spanne, va dalla trequarti offensiva a quella difensiva. Tradotto non è un giocatore che attacca la profondità e tende ad accorciare verso i mediani piuttosto che andare in verticale allungando la difesa avversarie. Questo rappresenta un vantaggio per certe cose (più qualità nella zona nervalgica del campo, più facilità nel palleggio) e uno svantaggio per altre (squadra con poca profondità, area vuota).
La soluzione di Emery è stata l'evoluzione di Iborra (successivamente sostituito da N'Zonzi). Lo spagnolo era un "semplice" mediano dal gran fisico, ottimo di testa. Il tecnico gli ha avanzato il raggio d'azione, chiedendogli inserimenti e verticalità (un po' come successo anni fa a Roma con Perrotta) per compensare il gioco di Banega. Iborra non a caso in due anni ha segnato più che in tutto il resto della carriera (e anche N'Zonzi ha pareggiato il suo record di gol in una stagione): nello schema del Siviglia era fondamentale per riempire l'area, dare peso offensivo e contemporaneamente il suo dinamismo serviva per aiutare in copertura. Alzato sulla trequarti poteva anche dar manforte al pressing offensivo, portando ovviamente più fisicità rispetto a Banega. Un ruolo molto dinamico, per cui serve sì il fisico, ma anche una certa intelligenza tattica per non squilibrare tutto il sistema.

I movimenti dei tre erano in parte coordinati da Emery, in parte dipendenti dalla contingenza e dall'intesa reciproca. Un equilibrio sottile, che però a Siviglia ha portato grandi risultati, valorizzando tutti gli interpreti come mai prima.

16 ago 2016

L'Atletico Paranaense, una squadra di peso

Disclaimer: questo post mira a mettere in risalto la scarsa condizione atletica di calciatori professionisti. Chi ritenesse questa operazione irrispettosa o scorretta per qualsivoglia motivo può smettere di leggere in questo momento.

L'Atletico Paranaense è una squadra di Curitiba che nel 2001 ha addirittura vinto il Brasileirao. Oltre quell'exploit il club non è esattamente ai vertici del calcio brasiliano, però negli ultimi tempi viaggia a buoni livelli. Attualmente, per dire, è al settimo posto del campionato 2016 con più punti di club con ben altro blasone come Fluminense, San Paolo, Internacional e Cruzeiro.
In Italia il nome del Furacão ogni tanto circola perché i suoi mediani titolari, Otavio ed Hernani, sono prospetti interessanti. A veder giocare l'Atletico però più che il talento dei due giovani saltano all'occhio le dimensioni di altri titolari. E con dimensioni intendo larghezza e girovita.

Il tratto distintivo dell'Atletico Paranaense, più che la qualità del gioco o la tattica, è proprio la condizione fisica di diversi giocatori, rivedibile ad essere gentili, non solo titolari, ma pure referenti tecnici con carisma e peso calcistico come minimo pari a quello indicato dalla bilancia. Una situazione quantomeno curiosa, che magari testimonia la qualità del cuoco del club, ma getta sinistre ombre sul preparatore atletico e sulla gestione tecnica dell'allenatore in generale.

Il massimo esponente della categoria è Walter Henrique da Silva. Giocatore con una storia personale difficilissima, cresciuto tra fame e violenza, il numero 19 è il punto di riferimento assoluto della squadra, il migliore dal punto di vista tecnico e il referente della fase offensiva. Visto che di mestiere fa la punta parlare di centravanti boa viene fin troppo facile, ma il tratto distintivo di Walter in realtà è il suo essere giocatore tecnico, anche dinamico, sempre pronto a svariare e proporsi. Intrappolato però in un fisico da mangiatore di hot dog competitivo, malgrado sia un classe '89.
Lui stesso ha dichiarato di avere un problema coi dolci e le bibite gassate, cosa che rende per lui praticamente impossibile arrivare a una condizione fisica veramente accettabile. Può limitarsi, ma niente di più. A Curitiba però va bene così, perché Walterror da due anni è una delle cose più belle da vedere in campo in maglia rossonera. Forse proprio per la dicotomia assoluta tra tecnica di altissimo livello e fisico da divano.


Se il tuo miglior giocatore dà questo genere di esempio e ha queste concessioni la situazione può degnerare, specie in Brasile. E a Curitiba è degenerata.



In attacco come centravanti di riserva nel 2016 è arrivato André Lima, uno che ha giocato in 15 squadre diverse toccando anche l'Europa con l'Herta Berlino e la Cina. Oggi entra in campo o per dare il cambio a Walter o per permettergli di giocare più arretrato. Il sospetto che più che sugli uno-due siano forti su primo-secondo è decisamente fondato.



Sempre in attacco gioca anche Maycon Vinicius Ferreira da Cruz, detto Nikão. Numero 11, attaccante esterno mancino classe '92 è il complemento ideale per chiudere il tris di primi.

Altro reparto in condizioni critiche è la difesa. Qui tre titolari su quattro sembrano impegnati in una sfida a chi raggiunge prima la tripla cifra.



Thiago Heleno è un classe '88 con esperienza in diversi club brasiliani e persino nelle selezioni giovanili del Brasile. Col numero 44 è il leader della difesa e quello che conduce l'attacco al buffet degli antipasti.

Sodali col loro leader ci sono i due terzini, Leo e Sidcley. Il primo, esterno destro, testimonia come l'ambiente rovini il singolo: classe '91 proveniente da esperienze al Flamengo e all'Internacional nelle squadre precedenti si presentava nettamente più snello. Ora il declino avanza.



Su Sidcley il discorso va approfondito. Il mancino classe '93 è un vero talento del ruolo per fisico e capacità offensive, con un piede educato e potente. Bisogna però tenerlo lontano dai fritti.



Se fate una ricerca per immagini su un qualunque motore troverete molte altre testimonianze della loro pinguetudine.
I due mediani, Otavio ed Hernani, sono praticamente i giocatori nelle migliori condizioni della squadra. E casualmente anche quelli deputati a tenere in piedi la baracca.
In queste condizioni l'Atletico Paranaense nel 2016 ha vinto il suo campionato regionale, regolando nella doppia finale con un 5-0 complessivo il Curitiba. Tra i marcatori Walter e Thiago Heleno.
Chissà poi la festa.

7 ago 2016

Teofilo Gutierrez



“Aveva la pelle screpolata dalle intemperie, i capelli corti e ritti come i crini di un mulo, le mascelle ferree e lo sguardo triste. […] Era José Arcadio. Veniva povero come se n'era andato. Parlava uno spagnolo mescolato al gergo dei marinai. Gli chiesero dov'era stato e risposte -Qui e là-. Appese la l'amaca nella stanza che gli avevano assegnato e dormì per tre giorni.”
Gabriel Garcia Marquez, "Cent'anni di Solitudine".

José Arcadio è il figlio del fondatore di Macondo, José Arcadio Buendìa, ed è tornato al villaggio dopo aver girovagato per anni con gli zingari. Nel giro di pochissimo tempo, ricoprirà di scandalo il buon nome dei Buendia e verrà cacciato di casa.
Teofilo Gutierrez ha molto in comune con lui: ha i capelli corti e ritti come i crini di un mulo, ha le mascelle ferree e talvolta pure lo sguardo triste. I due condividono la sorte di essere nati colombiani e con lo stesso nome di battesimo del padre. Non si tratta di due colombiani qualsiasi, sono colombiani all'ennesima potenza: il primo è nato dall'impasto tra l'inchiostro e le visioni del più grande scrittore della storia del Paese, il secondo è un ragazzo profondamente intriso dell'odore del contesto che lo ha cresciuto.
Entrambi sono sprofondati nell'eccesso e nello scandalo, hanno affrontato senza limiti loro stessi e chi stava loro intorno, se ne sono andati e sono ritornati, per poi rimettersi in spalla i bagagli e ripartire nuovamente verso una meta qualsiasi.
Nella sua Macondo Teo Gutierrez ci è già tornato e dopo poco è ripartito, ma oggi è a un passo da ritornare in un altro villaggio che ne ha conosciuto la mastodontica grandezza. Non quella fisica di José Arcadio, ma quella emotiva, quella mancanza di misura con la quale sfonda il muro dell'ordinarietà, dentro e fuori dal campo. Inutile dire che uno così viaggia alle proprie condizioni anche quando ha la palla tra i piedi e che la mastodontica grandezza è anche quella del suo talento, se si è svegliato con il piede giusto. Il villaggio che lo attende si chiama Argentina e questo capitolo della sua storia è ancora tutto da scrivere.

Barranquilla

Teo Gutierrez nasce tra le braccia della povertà a La Chinita, uno dei barrios più violenti della città di Barranquilla. La miseria ha trasformato questo quartiere nell'arena delle faide sanguinose tra le pandillas locali e ha reso l'auspicio di vivere un'esistenza serena a La Chinita una pretesa oltre i limiti dell'impossibile, tanto che nemmeno i taxi osano addentrarsi da quelle parti. Teo cresce in questo tremendo barrio sulla riva del Rio Magdalena e ai margini della società, imparando a vivere, ma soprattutto a non morire.
“Se non stai attento, qui ti mangiano” dirà molti anni più tardi.
Come tutti i ragazzini che crescono nella povertà in Sudamerica, anche per Teo arriva il giorno in cui deve rispondere alla domanda che, in un modo o nell'altro, avrebbe delineato buona parte della sua futura esistenza: ¿bala o pelota? Pallottola o pallone? Fortunatamente, suo padre Teofilo Sr aveva già scelto per lui, regalandogli la sua prima palla da calcio e affidandolo all'età di sette anni alle mani di Franklin Ramirez, maestro di fútbol di Barranquilla che viveva ogni giorno la missione di tenere i bambini indigenti lontani dal vizio attraverso il calcio. Tra le fila dell'Independiente Framy, il piccolo club di Ramirez, Teo esprime tutto il proprio viscerale amore per il pallone, che per fortuna è reciproco: il figlio dei Gutierrez gioca splendidamente e all'età di quindici anni, mentre il suo talento si fa sempre più nitido, cerca una chance nelle inferiores del Junior, la squadra più importante di Barranquilla.
Ad attenderlo sul campo d'allenamento delle inferiores c'è William Eduardo Knight, ex giocatore della Nazionale colombiana a metà degli anni Ottanta e tecnico giovanile per l'equipo costeño. Teo viene presentato dal padre come un numero dieci, ma l'ex Cafetero non gli dà retta, perchè non appena lo vede giocare, riconosce in lui un attaccante potenzialmente fenomenale. Lo cambia subito di ruolo e d'un tratto la sua mobilità, il suo tocco educato e la sua grinta vengono espressi in funzione della sua caratteristica principale, mai celata nemmeno da trequartista: saper fare gol. A diciannove anni viene mandato al Barranquilla FC, la succursale dei Tiburones in seconda divisione, dove incontra un ancora anonimo Carlos Bacca e debutta da calciatore professionista, mettendo a segno sedici reti in quaranta partite.
Il destino di Teo Gutierrez è la sua Macondo, è il Junior, che l'anno seguente gli consegna sia la maglia numero 38 che l'occasione di segnare il proprio primo gol nella massima serie colombiana, freddando con una zampata da attaccante di alta classe il portiere dell'Once Caldas. Nonostante questa gioia, i primi tempi sono duri, seduto costantemente in panchina sognando di avere le chance per diventare forte come Ibrahimovic e Valderrama. Tutto questo fino all'arrivo di un uruguayo sulla panchina del Junior: è Julio Avelino Comesaña, che su di lui piazza e vince la propria scommessa.
Teo dimostra fin da subito che il compromesso non è parte di lui: nelle partite in cui è in forma rompe letteralmente le reti e mette a referto triplette con frequenza sufficiente per guadagnarsi il soprannome di “Triofilo”, ma quando scende in campo con la luna storta c'è solo il buio. Ciò su cui è impossibile dibattere è un'altissima predisposizione per caratteristiche ad essere un top: movimenti frutto di un cervello calcisticamente finissimo e piedi ottimi (le due piacevolissime sorprese che si riscontrano negli attaccanti con un passato da fantasisti), accompagnati da un'attrazione magnetica per la porta. Figlio di Barranquilla e figlio del gioco, due ingredienti che portano tanta allegria all'Estadio Metropolitan. Il 2009 è il suo anno, dentro e fuori dal campo: nel primo semestre segna sedici reti e porta il Junior fino alla finale del campionato, persa contro l'Once Caldas, mentre nel secondo semestre rischia di replicarsi infilando altri quattordici palloni nel sacco. La sua gente lo ama alla follia, complice il viscerale attaccamento alla maglia e alla città, dove deciderà sempre di tornare prima di prendere una decisione o dopo aver sfidato tutto ciò che ha intorno.
Barranquilla è nel cuore di Teo e, dopo anni di calcio di vertice nazionale, chi è nel cuore di Teo è a Barranquilla: finalmente, infatti, l'attaccante riesce a mantenere la promessa fatta alla mamma diversi anni prima, quella di portare lei e il resto della famiglia fuori dal barrio La Chinita. Si chiude così il cerchio della prima fase della carriera di Teofilo Gutierrez.

Locuras

L'anno successivo, la svolta: il Trabzonspor decide di mettere sul piatto quattro milioni e mezzo di dollari per portarselo a Trebisonda e godere dei suoi gol. Teo arriva in Turchia e si presenta con la sua specialità: la tripletta, che inflitta al Bursaspor è la chiave per sollevare il primo trofeo della sua carriera, la Supercoppa Turca. Il bel tempo si vede dal mattino? Neanche per sogno, perché Teo non riesce a integrarsi e nel giro di poco realizza di volersene andare. Forse perché per un colombiano parlare di “Antioquia” con un turco è la via più breve per fraintendersi, forse perché le scintille iniziali non sono state seguite dalla titolarità che pretendeva, forse perché le sirene inglesi del Liverpool squillate dopo l'incontro europeo gli hanno messo in testa altre prospettive, ma il dato di fatto è che Teofilo Gutierrez non vuole perdere altro tempo in Turchia. Il fatto che il contratto firmato, con l'inchiostro ancora fresco, sarebbe valido per i successivi tre anni e mezzo non è certo un deterrente per Teo, che mal si presta all'accondiscendenza: passano nove mesi, e il ventre del puntero partorisce il primo frutto visibile del suo animo sensibile e controverso. La Seleccion Cafetera lo convoca a ottobre per una partita, lui risponde alla chiamata della patria e da lì in avanti smette di rispondere alle chiamate di chi lo cerca dall'altra parte dell'Oceano. Teo non pensa alle conseguenze, Teo resta nella sua Barranquilla e motiva la fuga con dei problemi di salute subentrati a causa della continua esposizione ad ansia e stress. I delegati turchi lo fanno visitare e, stando a loro, l'unico disturbo del costeño sarebbe quello recato alla dirigenza del club con la sua fuga. Il Trabzonspor ingaggia col giocatore un duello sotto gli occhi della FIFA, durante il quale Teo rimane a casa e aiuta sua nonna Aura a preparare le empanadas che avrebbe venduto al negozio di famiglia. Dopo quattro mesi di schermaglie, si profila all'orizzonte una soluzione che avrebbe messo tutti d'accordo: il Racing Club.
A Miguel Angel Russo, tecnico dell'Academia, basta un colloquio per portarlo al Cilindro, carico come non mai. Per la stampa argentina si tratta di un semi-sconosciuto e per questo piovono critiche sulla scelta della dirigenza, ma cinque gol nelle prime cinque partite basteranno a Teo per zittire chiunque avesse dubitato di lui e per conquistarsi l'amore del tifo academico. Il primo semestre lo chiude da capocannoniere, ma il suo carattere fortemente emotivo esplode nuovamente in una lite durante l'allenamento con Mauro Dobler, portiere di riserva del Racing con cui arriva alle mani dopo uno scontro di gioco in partitella. Da quel momento, l'atmosfera intorno a Teo si surriscalda: il suo rendimento si fa sempre più discontinuo e la forbice tra cartellini presi e gol fatti si restringe pericolosamente. Nel 2012 il clima si corrompe definitivamente e in un Clasico perso rovinosamente contro l'Independiente, Teo dà all'arbitro del “carón”, equivalente colombiano per “sfacciato”, ma ovviamente il direttore di gara argentino capisce “cagón” e lo manda negli spogliatoi. Alla fine del match, Sebastian Saja, portiere del Racing e senatore del gruppo, ormai esasperato dal comportamento di Teo, lo attacca verbalmente. La scintilla della lite scoppia e i due arrivano alle mani in un attimo, finché i compagni non li separano a forza. A quel punto, Teofilo Gutierrez estrae dal borsone una pistola giocattolo e minaccia il compagno, lasciando di stucco tutti i presenti. In quel rovente spogliatoio entra anche la polizia e nei giorni seguenti la parabola di Teo Gutierrez al Racing si interrompe definitivamente, nella maniera più illogica. Diventa un “tutti-contro-Teo”, perchè in pochi hanno intenzione di tollerare le follie che la sua spiccata emotività lo porta a compiere quando le situazioni si fanno dure.

Siempre Barranquilla

La legge non scritta di Teofilo Gutierrez è la seguente: se non sei a tuo agio, cerca la felicità altrove, perchè Dio ti segue ovunque vai. La sua fede è incrollabile ed è l'unica certezza insieme alla famiglia, in una vita che, come per ogni sudamericano del barrio, è stata densa quanto dieci delle nostre. La fede in Dio è lo specchio attraverso cui percepisce di essere dalla parte del giusto nonostante le critiche, e mescolata a una discreta dose di follia, a una'altra altrettanto buona di sicurezza nei propri mezzi e a un'emotività esplosiva, ci dà Teo Gutierrez. Ci dà l'uomo che viene riempito di lodi e massacrato di critiche, ma che continua a cercare la felicità.
Poco dopo l'alterco col Chino, Teo prende le valigie e abbandona il Cilindro, ma riceve subito una seconda chance argentina, perché il Lanús ha bisogno di un attaccante di livello per avanzare nella fase a eliminazione diretta della Copa Libertadores. Arriva in prestito e segna un gol contro il Vasco da Gama, che però non basta ai Granate per evitare l'eliminazione. Un mese dopo la sconfitta, Teo non si presenta a un allenamento e prende un aereo per Barranquilla, formalmente per rispondere alla convocazione per un'amichevole della sua Nazionale. Unico dettaglio: quando José Pekerman dirama la lista dei convocati, il nome dell'attaccante non è pervenuto. La dirigenza del Lanús monta su tutte le furie e rescinde il contratto con un mese d'anticipo, chiudendo al più presto possibile il breve capitolo con l'ingestibile Teo.
Per la seconda volta in carriera, l'attaccante manda all'aria un contesto a beneficio di un aereo per Barranquilla, la panacea al male esistenziale che lo affligge quando si sente costretto a stare nel posto sbagliato.
Anche José Arcadio ha girovagato per il mondo, ma ha deciso di tornare a Macondo, nella casa dei Buendìa, tra i deliri del padre e le ossessioni delle sorelle. Quell'anno, il Junior gli offre un contratto importante per convincerlo a non comprare il biglietto di ritorno, almeno per quel semestre: Teo non ci pensa due volte e torna al Metropolitan, dove tutti lo adorano e lo accolgono con il calore che ha sempre cercato nelle sue fughe. Indossare ancora rojiblanco gli scalda il cuore, perché non ha mai dimenticato da dove viene e cosa lo ha reso ciò che è: Barranquilla gli ha lasciato addosso i segni del passato, come la tendenza a sudare molto dalle mani, che è il risultato delle notti a lavorare duramente in pescheria.
Sembra un idillio già scritto ma Teo non riesce a convertire questa allegria in reti: ne infila cinque in tutto il semestre, deludendo le aspettative della stampa colombiana, che torna a criticarlo duramente. Destino che tocca a chi non cerca mai di compiacere le penne. Al termine del semestre se ne va senza aver convinto, così come José Arcadio, cacciato di casa poco dopo il suo ritorno a Macondo per la sua scandalosa relazione con la sorellastra Rebeca.

Redenzione?

La carriera di Teo sembra essere giunta a un punto morto, nel quale si rende conto che la possibilità di redenzione può passare solo per la croce. Non quella di Cristo, ma quella di Città del Messico, perché il Cruz Azul gli offre la possibilità di rilanciarsi dopo un anno disastroso. I messicani scommettono su Teo e Teo scommette su sé stesso, promettendo grandi cose alla tifoseria della Maquina. Il campo lo premia con nove reti in 28 partite, ma la redenzione del barranquilleno è ancora molto lontana dal compiersi, perché qualcosa si rompe ugualmente. Teofilo Gutierrez inizia a puntare i piedi per andarsene dopo soli sei mesi, fiutando l'opportunità che sognava da una vita: il River Plate.
Teo è tifosissimo della Banda, fin da bambino, quando faceva compagnia al padre davanti alla televisione mentre giocavano i discendenti di un'altra Maquina, il River di Francescoli. La possibilità di vestire la camiseta dei Millonarios gli fa perdere completamente la testa, iniziando a rendere sempre più esplicito il proprio desiderio di partire. Con le spalle al muro, il Cruz Azul accetta l'offerta del River Plate e concede a Teofilo Gutierrez il suo sogno più grande.
Con indosso la maglia del suo amore, il colombiano infiamma il Monumental diventando l'uomo fondamentale del rivoluzionario scacchiere di Marcelo Gallardo, che conduce il River alla vittoria della Copa Sudamericana. E' il momento più alto della carriera di Teo, cullato dalla consapevolezza di essere indispensabile e dalle vittorie che sognava fin da piccolo, con la sua squadra del cuore. Nella sua esperienza al River Teofilo Gutierrez è semplicemente devastante e la notte di Copa Libertadores in cui i Millonarios riescono a schiacciare fuori casa il Cruzeiro per tre reti a zero, rimontando lo svantaggio dell'andata, se ne ha la prova definitiva: Teo gioca un match di un'altra categoria, da trascinatore tecnico, e insacca il gol che chiude i giochi. Tutto questo nel turno successivo al Superclasico col Boca, in cui si era fatto espellere: tutto Teofilo Gutierrez, folle e incontenibile. Talmente folle e incontenibile che nemmeno la prospettiva concreta di vincere la prima Libertadores della sua carriera lo trattiene al River. Con qualche credito nei confronti di Millonarios, decide di chiudere il conto in sospeso con l'Europa accettando l'offerta dello Sporting Club: a trent'anni compiuti, segna tanto, dimostra al Portogallo e al vecchio continente di essere una delle più grandi bombe inesplose del suo calcio e che il resto della sua carriera sarebbe stato un'incognita per lui, prima che per tutti gli altri. Infatti oggi, nell'estate 2016, tutto sembra apparecchiato perché torni in Argentina, nella piazza che più di tutte si presta ad amare visceralmente un giocatore come Teo Gutierrez, il Rosario Central. Tradizionalmente, quelli che a Rosario hanno un braciere al posto del cuore. Loro potranno capire fino in fondo un uomo che ha sempre espresso le proprie emozioni in maniera mastodontica, come quando ha preso a calci e pugni la bara di nonna Aura il giorno del suo funerale, prima di svenire per il dolore, ma sapranno anche amare un giocatore che ha sempre onorato il calcio con interpretazioni da campione, al netto dei suoi black-out. Per tornare in Argentina, mondo che lo ha amato ma mai risparmiato, ha scelto il giro largo, passando per i Giochi Olimpici di Rio, dove cercherà di cancellare il ricordo più recente di Teofilo Gutierrez in una grande competizione internazionale: i primi venti minuti di Argentina-Colombia, quarti di finale di Copa América 2015, in cui ha steccato ogni tocco prima di essere sostituito. Nel momento decisivo potrebbe farsi espellere o segnare una tripletta, ma qualsiasi cosa farà, la farà nello stile di Teo Gutierrez: seguendo il cuore e calciando forte in rete, sempre una spanna sopra la solitudine.


Immagine da: terceraplana.com

15 lug 2016

Scuola Sporting


Se non vivete in una grotta, anche se non seguite il calcio ormai saprete che il Portogallo ha vinto Euro 2016. Un'affermazione storica per una nazionale che sembrava destinata a non trionfare mai per limiti strutturali scritti nel dna, e invece ha trovato il modo di imporsi a suo modo, vincendo in totale solo una partita entro i novanta minuti in tutto il torneo. Del resto si è sempre detto che i portoghesi sarebbero i più forti del mondo nel calcio senza porte, e questa è una sorta di dimostrazione che il fato ha voluto darci.

L'ossatura della rosa campione d'Europa ha un'origine sorprendentemente chiara: ben dieci dei quattordici giocatori utilizzati da Fernando Santos nella finale contro la Francia sono prodotti dello Sporting club de Portugal (da quelle parti mal sopportano la dicitura Sporting Lisbona, io vi avviso). E anche il ct a dirla tutta ha avuto un'esperienza sulla panchina del club biancoverde.
Un dato sorprendente visto che lo Sporting nell'immaginario collettivo è al terzo posto nella gerarchia delle tre grandi portoghesi, ben staccato nella considerazione sia dal Porto che dai rivali cittadini del Benfica.
Rui Patricio, Cedric (a proposito, se uno sulla maglia si fa scrivere Cédric specificando dove va l'accento perché chiamarlo per tutto l'Europeo Cedríc?), Fonte, William Carvalho, Adrien Silva, João Mario, Nani, Cristiano Ronaldo, João Moutinho, Quaresma. Sono questi i dieci prodotti biancoverdi vale a dire gran parte dei giocatori più forti che possa schierare il Portogallo. Infatti otto di loro erano titolari in finale. Curioso che ben cinque siano ancora a Lisbona.
Il merito di aver formato questa generazione va a un uomo in particolare: Aurelio Pereira, che dal 1988 è a capo del settore giovanile dello Sporting. Molto più che un semplice osservatore, Pereira ha evidentemente un occhio unico per il talento unito alla capacità di reclutare i giovani e farli crescere, portandoli nel miglior modo possibile alle soglie del calcio professionistico. Oltre a questa generazione anche alcuni grandi del passato sono "nati" grazie ai suoi consigli, come Luis Figo e Simão Sabrosa. 

C'è un paradosso però dietro a tutto questo: lo Sporting è un ottima fucina di talenti, ma non vince un campionato da quattordici anni.
Anzi, andando oltre si scopre che dei diciotto titoli nazionali ottenuti solo due sono arrivati negli ultimi trentaquattro anni, nelle stagioni 1999-2000 e 2001-2002 grazie ai gol a grappoli segnati da Mario Jardel. Oltre a questi il punto più alto della storia recente è la finale di Coppa UEFA persa contro il CSKA Mosca. Una partita che ha solidificato una sorta di maledizione per il club visto che si giocava a Libona, all'Estadio José Alvalade, e rappresentava per lo Sporting la migliore occasione di scrollarsi di dosso il complesso di inferiorità verso Porto e Benfica.
Lo Sporting quindi rappresenta una scuola unica per il calcio portoghese, ma molto raramente raccoglie i frutti del suo lavoro. Due esempi ideali sono Quaresma e Moutinho: entrambi, come detto, prodotti delle giovanili hanno trovato consacrazione e titoli con la maglia del Porto.
Un destino beffardo per i Leoni di Lisbona.

11 lug 2016

Hic et nunc


Il fascino del calcio sudamericano deriva principalmente da un aspetto, oltre che dalla sua forma sistematicamente caotica: tutto ciò che accade, che passa sotto gli occhi degli appassionati e dei tifosi, è destinato a svanire. Le eccezioni che confermano la regola ci sono, ma le splendide traiettorie che il fútbol prende sono da ammirare come delle comete, o delle congiunzioni astrali particolari. Hic et nunc, qui e ora, e nel giro di breve tempo, tutto il contrario. Il confine tra "nunc" e "nunca mas" è sottile quanto la capacità che serve per poter apprezzare questo aspetto estremamente nostalgico.

Lo straordinario River di Marcelo Gallardo, campione d'America 2015, si è visto strappare due pilastri come Kranevitter e Carlos Sánchez e la gloria si è trasformata in fallimento nel giro di pochissimi mesi. Le dinamiche del mercato mondiale mettono tutto in discussione e sicuramente anche la sponda Canalla di Rosario sa benissimo che rifarsi gli occhi con due crack come Lo Celso e Cervi nello stesso undici è una dimensione quanto mai passeggera, destinata a non durare. Splendide generazioni che si frantumano in un attimo, band che si sciolgono dopo il primo album: solo il topos della "vuelta", altro esercizio profondamente sudamericano, può pensare di ricucire, anche se solo parzialmente e ad anni di distanza, il ricordo di qualcosa di grande.

Hic e nunc, qui e ora. Qui, tra Sangolquì e Medellìn, ora, nel cuore del 2016. Il turno d'andata delle semifinali di Copa Libertadores ha sorriso a due squadre bellissime a vedersi, implicate in una snervante lotta contro il tempo: cercare di scrivere il proprio nome più in alto possibile prima che i rispettivi gruppi si sfaldino. Chi questo problema se lo pone relativamente è l'Independiente del Valle, che ha appena battuto 2-1 il Boca Juniors, favoritissimi per la vittoria finale. Il match contro i bosteros è stato l'ennesima prova di quanto la squadra di Pablo Repetto sia un gioiellino che rimarrà cristallizzato nella mente di chi lo ha visto in azione: tra le mura semi-amiche dell'Olimpico Atahualpa (per trent'anni casa dell'LDU di Quito), l'IDV ha imposto il proprio calcio, profondamente legato alla tradizione calcistica del suo Paese. Fisicità, virtuosismi individuali nel saltare l'uomo e una capacità di fraseggio invidiabile, tutti fattori abbinati alla predisposizione mentale di non voler farsi schiacciare. Il Boca di Barros Schelotto, con i polmoni di piombo per i 2700 m d'altura di Quito, ha giocato un match difensivamente splatter (probabilmente la peggior prestazione nella storia azul y oro di Frank Fabra), non ha saputo tenere il vantaggio imposto con il gol di Perez e nella seconda metà di gara ha dovuto soccombere al cocktail micidiale di tecnica e fisico che è il calcio ecuadoregno nella sua migliore espressione. Le danze dei Rayados sono state aperte da Bryan Cabezas, esterno offensivo classe '97 con un futuro estremamente fulgido davanti a sé e delle caratteristiche micidiali. Il ragazzino ha infilato Orión con un destro secco e angolato, dopo aver toreato per più di metà partita la retroguardia del Boca: il ricambio generazionale della Trì, dopo questo soddisfacente ciclo, passerà sicuramente per gli elettrici piedi di questo talento. Dopo diversi minuti è arrivato il 2-1, firmato José Angulo. Anche in questo caso, il personaggio è l'archetipo del grande puntero dell'Ecuador: potenza, esplosività nel passo e gran tiro, tutti mezzi con cui ha irretito i marcatori azul y oro con un tocco a seguire e una palla a incrociare sul secondo palo. Il Monaco ha ormai mandato in porto l'operazione che farà giocare questo classe '95 nel Principato al termine dell'avventura. Detto "El Tin" in onore del leggendario Tin Delgado, ha davanti a sè una parabola sicuramente ascendente a livello europeo. Anche il pilastro difensivo, il ventiseienne Arturo Mina, ha già chiuso con l'Atletico Mineiro e si trasferirà in Brasile al termine della Copa: per quanto il progetto tecnico che negli ultimi anni ha portato l'IDV a bazzicare palcoscenici inimmaginabili sia straordinario, un'occasione simile sembra sussurrare "ora o mai più".

Chi invece la Copa Libertadores non l'ha solo già giocata, ma anche già vinta, peraltro nel momento che ha cambiato completamente le sorti del calcio colombiano, è l'Atletico Nacional de Medellin. I tempi del Pacho Maturana sono passati, ma l'Atanasio Girardot è sempre la culla di suggestioni calcistiche intriganti, nel futbol cafetero. Sulla base di quanto insegnato (e vinto) dal Profe Juan Carlos Osorio, Reinaldo Rueda ha dato continuità e ha aggiornato una squadra già di per sé vincente. L'Atletico Nacional di Rueda è senza dubbio la squadra che ha giocato il miglior calcio in questa edizione della Copa Libertadores, un calcio fatto di possesso palla, movimenti costanti degli esterni da difesa a tre e continua sollecitazione degli attaccanti grazie alle intuizioni dell'uomo in più dei Verdolagas: il venezuelano Alejandro Guerra. Il creativo del centrocampo, classe '85, porta il 15 sulle spalle e il 10 nella testa, e ha dato sfoggio di una tecnica favolosa in un'annata che è stata da preludio alla sorprendente Copa América della sua Vinotinto. Le semifinali di Libertadores partono con le premesse migliori: una vittoria per 0-2 in casa del Sao Paulo ad opera del neo-acquisto Borja, che insacca due reti e si candida a perno futuro della squadra di Medellìn. Anche in questo caso, il ticchettio dell'orologio mette pressione a un gruppo che è in procinto di perdersi: Davinson Sánchez , perla classe '96 della difesa Verdolaga è prossimo al trasferimento all'Ajax, Guerra potrebbe avere ottime proposte dopo l'avventura della Copa Centenario, Copete e Ibarbo hanno già abbandonato la barca, mentre Mejìa è promesso sposo del Leon e Seba Pérez sarà un pezzo grosso della sessione estiva del mercato europeo. Il sogno della vittoria della Libertadores è relativamente vicino, ma il fallimento non comprenderebbe una seconda possibilità, almeno per ora.
Queste battute finali di Copa Libertadores sono le ultime occasioni che ci restano per apprezzare due delle realtà calcistiche più interessanti dell'anno.

1 lug 2016

Pekerman LCDTH

Fidarsi delle dinamiche del calcio sudamericano è sempre un errore, persino banale per chi è abituato a seguirne gli avvenimenti. Evidentemente però c'è qualcosa di scritto nel dna di noi europei che ci porta a cercare pattern precisi, ripetizioni a cui aggrapparci e quindi sempre a cadere in questo errore, e parlare di conseguenza.
Nello specifico, mai giudicare le competizioni da quanto succede nei gironi. Mai. La Libertadores fa scuola in senso assoluto, ma anche questa Copa America Centenario porta chiarissimi moniti. Il Cile, per dire, sembrava la copia sbiadita della squadra vincitrice solo un anno fa e ha dominato la parte più difficile del tabellone della fase a gironi. C'è anche l'esempio opposto: la Colombia è partita forte, ma è durata praticamente una gara e mezza, seguendo il vecchio detto della candela che si scioglie prima bruciando troppo forte.

Parlare della squadra di Pekerman è necessario perché aveva illuso tutti, soprattutto chi scrive, di essere tornata. Buttare via praticamente tutto quando servivano conferme non può che meritare insulti, maledizioni e improperi. Anche perché qualcuno potrebbe avere con l'allenatore argentino un conto aperto fin dai Mondiali 2006.
Chiariamoci, uscire contro il Cile, questo Cile, in semifinale è più che lecito ed è difficile da considerare un fallimento. E la Colombia ha anche vinto la finalina di consolazione contro gli USA, chiudendo quindi la Copa al terzo posto. Però dopo le prime esibizioni questa squadra sembrava poter fare di più. Magari non vincere, ma quantomeno rappresentare un ostacolo degno per la Roja di Pizzi invece di scomparire dal campo dopo appena quindici minuti.

Impossibile chiudere gli occhi rispetto alle colpe di Pekerman. Lui, il vecchio maestro argentino, il grande architetto dietro la rinascita calcistica della Colombia di questi anni ogni volta che la sua squadra arriva alla fase ad eliminazione sembra entrare in modalità panico: puntualmente cambia spartito, rivoluziona la formazione anche se non soprattutto negli aspetti cardine del gioco e finisce per pagare con l'eliminazione.
Una tendenza quantomeno curiosa: Pekerman ha sempre messo mano ai suoi titolari quando è arrivato oltre i gironi, portando la Colombia a cambiare interpreti e anche gioco di conseguenza. E praticamente mai questi cambi hanno portato a qualcosa di positivo. Va bene studiare l'avversario e adattarsi, ma perché minare i propri punti di forza? La Colombia, specie questa generazione, non è certo una selezione tanto debole da dover temere così tanto i rivali.

Si parte dai Mondiali 2014. La Colombia è la sorpresa del torneo, e ha in James Rodriguez il giocatore rivelazione. La demolizione dell'Uruguay agli ottavi apriva prospettive di gloria alla selezione di Pekerman. Anche se i quarti vedevano come sfidante il Brasile padrone di casa i Cafeteros sembravano una squadra in missione con possibilità illimitate. Il ct senza apparente motivo inserisce Guarin tra i titolari rinunciando al fedelissimo Aguilar, il giocatore geometrico della mediana, perdendo riferimenti e squilibrando la formazione. Il risultato è una sconfitta per 2-1 (pur con l'alibi di un arbitraggio rivedibile) contro un Brasile che pochi giorni dopo andrà incontro a una delle peggiori disfatte della sua storia.

Nella Copa America 2015 la Colombia non ha certo brillato nei gironi, arrivando comunque a qualificarsi alla fase ad eliminazione. Perkerman per le partite contro Brasile, Venezuela e Perù aveva scelto di dare minuti e titolarità a Falcao per cercare il recupero del 9, mettendolo praticamente davanti a tutto. Arrivato ai quarti contro l'Argentina il ct però inverte la rotta decidendo di non rischiare più, stravolgendo tutta la formazione: da un 4-4-2 più o meno falso con due mediani, James e Cuadrado sulle fasce e la coppia d'attacco Teofilo-Falcao Pekerman è passato a una sorta di 4-1-3-2 con un solo centrocampista di ruolo (Mejia), Ibarbo-James-Cuadrado a inventare e in attacco due punte come Teo e Jackson Martinez. E pure Arias, un destro naturale, come terzino sinistro al posto di Armero (che è discutibilissimo, ma per la Colombia era un leader). Una soluzione così convincente che la prima sostituzione è arrivata al minuto 23 del primo tempo.

Infine c'è questa Copa America Centenario. La Colombia si era presentata con una bella idea di gioco basata su un 4-2-3-1 asimmetrico, con Cardona a sinistra a cercare spazi e combinazioni e soprattutto l'inserimento a centrocampo di Seba Perez, un centrocampista dinamico e moderno che finalmente rompeva il classico schema di Pekerman di due mediani statici sostanzialmente monofase. Dai quarti ovviamente Perez è uscito dal campo. Al suo posto dentro Carlos Sanchez, mediano purissimo. Una mossa che ha portato a una clamorosa perdita di opzioni nella manovra, un appiattimento del gioco che ha facilitato molto il lavoro del Perù e soprattutto del Cile (contro cui Sanchez si è fatto pure espellere). La disastrosa scelta di Fabra come terzino sinistro, uno che nel Boca non gioca sempre proprio per lacune difensive e infatti è stato arato dai cileni, è stata dettata dalla necessità, quindi non va sulla coscienza del ct.

28 giu 2016

Argentina, LPQLP

È una sconfitta ai rigori e ci può stare, perché, quando una competizione si decide dagli undici metri, l'imprevedibilità la fa da padrone e tutto sfugge dal tuo controllo: basta un'inezia per marcare la differenza tra vinti e vincitori. O forse no. Perché l'ennesima sconfitta della Seleccion in una finale internazionale, la seconda in un anno ai rigori contro il Cile, non è una partita andata male, non è un rigore calciato alto: è una disgrazia sportiva. La fine di una generazione, l'ennesima a tinte albicelesti, che si spegne a pochi metri dal traguardo. E allora diventa inaccettabile leggere di dettagli, di sorte, di mistica: è una squadra che, anche questa volta, non ha saputo vincere nonostante la rosa migliore e i giocatori migliori.

Del confronto Messi-Maradona si è parlato fin troppo, è ormai diventato meno interessante delle analisi tattiche sui gradi delle linee di corsa di Srna in sovrapposizione o di un trattato su come impugna la palla Coleman quando batte una rimessa laterale. La Pulga anche in questa occasione ha fallito. È uscito sconfitto da un'altra finale e questa volta non l'ha persa perché giocava da solo con altri 10. L'ha persa lui e l'ha fatto assieme alle altre stelle della Seleccion del Tata Martino: gli Higuain, gli Aguero e i Di Maria. Perché se hai cognomi del genere non puoi fare scena muta, soprattutto per tre anni di fila.

Rispetto alle altre occasioni, il DT albiceleste ha saputo costruire alle spalle dei fuoriclasse una squadra vera, solida, capace di garantire circolazione palla, pressing e affidabilità in ogni settore del campo. Non fosse sufficiente, nell'Argentina del Tata c'era anche personalità.
Romero non è un fenomeno, ma il suo lo ha fatto, come d'altronde l'intera linea difensiva, che in tutta la competizione ha concesso soltanto due reti. Merito anche di un centrocampo equilibrato, che, ruotando attorno al perno Mascherano, ha saputo garantire flessibilità, inserimenti e coperture puntuali. Augusto Fernandez e Banega hanno disputato uno splendido torneo, giocando magnificamente in funzione della squadra e dei giocatori offensivi. L'assenza di Augusto in finale, ad esempio, ha pesato non poco nella sfida atletica contro il centrocampo della Roja e il suo sostituto, Biglia, non ha fatto molto per giustificare la fiducia smodata di Martino nei suoi confronti. E i suoi occhi al momento di tirare il rigore erano tutto un programma.

Davanti, nel corso del torneo, i campioni argentini sono sempre riusciti a inventare qualcosa, ma, come già accaduto nel recente passato, al momento decisivo hanno steccato. Poco importa fare la classifica del peggiore: è forse Messi, che, oltre ad aver sbagliato un rigore, non ha segnato il gol che tutti si aspettavano? Oppure Higuain, che ha sbagliato l'ennesima rete che non ti puoi permettere di fallire? O il Kun Aguero, che è entrato per dare la svolta ed è riuscito a fare peggio del titolare (il tiro criminale con Mercado libero è da sostituzione immediata)? O forse il povero Di Maria, che anche questa volta ha collezionato più giorni in infermeria che minuti in campo? Hanno sbagliato tutti, hanno sbagliato troppo e sono talmente forti da non meritarsi giustificazioni al limite del penoso.

È innegabile che al Barcellona, al Napoli, al City e al PSG siano dei fattori decisivi invidiati da tutta Europa, ma non è neanche corretto fingere che le partite con l'Argentina non siano mai state giocate. La finale di New York, però, rappresenta forse il punto di non ritorno, perché mai come in questo caso la sensazione è che chi aveva il compito di fare la differenza, non l'ha saputa fare. Anzi, il momento più triste della sfida con il Cile è forse stato quando Messi ha deciso che la finale la doveva vincere lui e lo doveva fare da solo. Non si può sapere cosa sia passato nella testa del rosarino in quei minuti, ma non capire che si poteva appoggiare a una vera squadra è stato un delitto. Nella testa di tutta l'Argentina questo triennio, affrontato con questi giocatori, rischia di essere un macigno troppo grosso per essere spostato. Per il Brasile si ricorda sempre il 1950 come momento di dramma sportivo, per la sconfitta 2-1 contro l'Uruguay. Qui una delle generazioni con più talento di sempre ha perso tre finali in tre anni di fila, restando in vantaggio complessivamente sette minuti. Un paradosso, ma lo stesso un dramma che rappresenta il culmine di ventitré anni senza vittorie.

Dall'altra parte della barricata, invece, si festeggia e lo si fa con pieno merito. Il Cile di Pizzi, a differenza dell'Argentina, ha saputo soffrire ed è uscito con prepotenza quando la partita ha abbandonato i binari convenzionali, adattandosi perfettamente con l'uomo in meno e appoggiandosi a individualità esaltate dalla squadra e per la squadra. Mentre le stelle argentine si bloccavano tra fantasmi e pressione, Medel e Vidal guidavano i compagni con sicurezza massima, in un crescendo di personalità e arroganza calcistica che avrebbe saputo coinvolgere anche il più terrorizzato dei compagni. La Roja, nonostante l'evidente dislivello tecnico, ha saputo rimanere squadra nel momento di massima difficoltà e lo ha fatto grazie alle sue stelle. A differenza di quelle argentine, che hanno preferito affidarsi a loro stesse, perdendo invariabilmente.

16 giu 2016

Il difficile rapporto tra l'Uruguay e Cavani

La Copa America Centenario è stata una delusione per l'Uruguay e forse il punto più basso della gestione Tabarez, un passo sotto la disastrosa prova alle Olimpiadi 2012. Il Maestro triste ormai guida la Celeste da un decennio e il suo ciclo, almeno in questi uomini, potrebbe essere arrivato alla fine dopo aver toccato il suo zenit tra 2010 e 2011.
In questa edizione speciale della Copa l'Uruguay ha giocato senza il suo leader e referente assoluto Luis Suarez. Ormai una specie di tradizione la sua assenza per squalifica, che tende sempre a lasciare la squadra costretta ad arrabattarsi in cattive acque, perché da centrocampo in su l'Uruguay non ha ancora trovato qualcuno che possa sostituire Diego Forlan. E qui si può cominciare a parlare dei problemi di Cavani.

El Matador ha esordito con la maglia della sua nazionale nel 2008 e oggi punta alla top 5 dei giocatori con più presenze in assoluto. In più a breve sarà il secondo marcatore di sempre dietro a Suarez. Nel 2010 era al Mondiale e nel 2011 ha partecipato alla spedizione in Argentina che ha fatto tornare l'Uruguay sul tetto del Sudamerica. Però Cavani per la Celeste è sempre stato un elemento di complemento. Forte, forse anche fortissimo, ma di complemento.
Prima c'era el Cachavacha Forlan, poi Suarez. Cavani nell'attacco dell'Uruguay è sempre venuto dopo almeno un referente tecnico di spessore assoluto, e ha accettato il ruolo di spalla. Del resto tra le sue caratteristiche da sempre spiccano la corsa e la capacità di sacrificio. Due doti che per convincere Tabarez servono eccome, e il giocatore del PSG non si è mai risparmiato, dando tutto in campo anche in un ruolo secondario. Per chi segue l'Uruguay non è una sorpresa vedere Cavani correre lontano dalla porta, anche in fascia, anche a chiudere diagonali da terzino, pressando chiunque. Non a caso il suo score in nazionale si avvicina di più a quello che ha avuto a Palermo che non alle avventure a Parigi e soprattutto a Napoli.
Il problema nasce esattamente qui: Cavani innanzitutto è vittima di se stesso e della sua disponibilità al sacrificio. Suarez è un giocatore che in campo, almeno con la maglia celeste, trasuda garra e non si risparmia in nulla, ma nessuno si sogna di chiedergli un lavoro da gregario. Troppa è la sua importanza, la sua influenza sui risultati di squadra. A Cavani invece Tabarez lo chiede di continuo, e spesso quando non serve per quello viene pure fatto accomodare in panchina nonostante gli oltre 30 gol in nazionale e la concorrenza di basso livello, escluso il 9 del Barcellona.

Edinson insomma  può considerarsi in qualche modo maltrattato dal suo ct, ma dal canto suo non fa molto per aiutarsi. Cavani infatti ha una capacità unica di gettare al vento le (poche) occasioni che ha di mettersi in mostra e candidarsi come uomo di riferimento per Tabarez.
Questa Copa America Centenario è un esempio perfetto. Con el Pistolero squalificato Cavani sapeva di partire titolare avendo sostanzialmente la squadra sulle spalle. Il girone era roba sua, poi si poteva discutere, con Venezuela e Giamaica che non sembravano proprio avversari impossibili.
Risultato? Zero reti, praticamente nessuno spunto, un impatto sostanzialmente inesistente sulla squadra. Tutto l'Uruguay ha fatto male, sia chiaro, ma Cavani non ha aiutato in nessun modo a trovare una soluzione. Dimostrando nella sfida decisiva contro il Venezuela anche di pagare parecchio la pressione, con due buone occasioni sprecate malamente.

Cavani, che nel corso della stagione si lamenta un giorno sì e l'altro pure del suo ruolo secondario rispetto a Ibrahimovic nel PSG, in Copa America ha fallito a livello di leadership e carattere. Aveva un'occasione di smarcarsi dal suo ruolo di gregario ed è affondato insieme a tutta la squadra, senza nemmeno provare a stare a galla.

10 giu 2016

La nuova Colombia di Pekerman

Un anno fa la Colombia in Copa America sembrava finita in un tunnel molto, troppo profondo.
L'edizione cilena del 2015 per Perkerman è stata un fallimento. Non tanto per l'eliminazione ai quarti, quanto per come i Cafeteros sono scesi in campo. Senza idee, senza mai sembrare una squadra, con persino James incapace di trascinare, lasciando chiaramente l'impressione di essere una generazione alle corde.
L'idea di una nazionale triste, solitaria y final veniva anche da una considerazione più generale. I ct per una consolidata tendenza sono portati a lavorare con un certo gruppo di giocatori e difficilmente nel mezzo del loro mandato cambiano i propri riferimenti. I motivi sono i più disparati, dalla riconoscenza alle convinzioni tecniche (l'Uruguay di Tabarez è forse l'esempio più estremo). Il fatto è che con quegli uomini la Colombia non aveva vie d'uscita
Presumere che Pekerman sia un allenatore "normale" però è sempre sbagliato, e ancora una volta el Patriarca ha voluto dare una lezione a tutti.

Posto di fronte a un fallimento inaspettato Pekerman ha preso una decisione abbastanza estrema. Guardando le formazioni, rispetto all'ultima partita giocata nella Copa 2015 contro l'Argentina il ct ha mantenuto sei titolari: Ospina, Zapata, Murillo, Arias, Cuadrado e James. In più va considerato che Murillo un anno fa era quasi un esordiente assoluto e Arias, di ruolo terzino destro, giocava adattato a sinistra al posto di Armero. I Cafeteros di fatto oggi hanno di fatto una squadra nuova, soprattutto dalla difesa in su.
Nel reparto arretrato Pekerman aveva già anticipato il cambiamento principale un anno fa: ammainata la bandiera Yepes, Murillo era stato promosso titolare insieme a Zapata, e da quel momento non è più uscito dalle convocazioni. Zuniga e Armero, gli indiscutibili terzini titolari, sono stati giubilati nei mesi successivi. La scelta è stata molto meno scontata di quello che sembra: i due, per quanto discutibili come qualità calcistiche, nella Colombia erano leader in campo e nello spogliatoio (non a caso hanno rispettivamente 62 e 66 presenze).
Il reparto nettamente più in difficoltà in Cile (ma per certi versi anche al Mondiale) era il centrocampo, sostanzialmente incapace di collegare difesa e attacco e passabile solo per alzare le barricate. Anche qui Pekerman non si è fatto problemi a operare in modo netto, epurando sostanzialmente tutti per promuovere titolari assoluti Torres e Sebastian Perez. Il primo è l'elemento di equilibrio della squadra, il mediano più posizionale e difensivo, mentre il secondo è un classe '93 interessantissimo per capacità di leggere tatticamente l'azione e agire box-to-box. Entrambi giocano ancora in Colombia, ma la cosa non ha minimamente spaventato il vecchio maestro, che ora viene ripagato sul campo.
Dei quattro elementi più offensivi due posti non sono mai stati in discussione. James Rodriguez è il leader assoluto di questa seleccion e non lo tolgono dal campo nemmeno gli infortuni alla spalla, mentre Cuadrado è fondamentale come esterno di corsa, spunti e uno contro uno in velocità. Il problema era chi mettergli attorno.
In origine il ruolo di 9 era affidato saldamente a Falcao, ma la progressiva scomparsa del Tigre ha portato all'alternanza tra Jackson Martinez, Teofilo Gutierrez e Carlos Bacca. Il primo dopo una parentesi all'Atletico ha scelto la Cina, tagliandosi dalle convocazioni. Il secondo, titolare in Cile come al Mondiale, nel passaggio allo Sporting non ha più convinto il ct. Rimane Bacca, che anche al Milan si è confermato capace di fare gol dopo i due anni al Siviglia e come vero centravanti può dare ottime opzioni di gioco per il 10 e l'11. Fino a questa Copa Centenario in nazionale aveva dovuto accontentarsi delle briciole.
Ma la vera scelta determinante di Pekerman è quella del quarto uomo, nominalmente l'esterno sinistro della formazione. Uno spot che non ha mai avuto un vero titolare di ruolo (Ibarbo, una delle opzioni più utilizzate, non è stato nemmeno convocato) in cui il ct ha promosso Edwin Cardona. Un giocatore che però non è un esterno e non ha minimamente il passo per coprire la posizione in senso canonico.
Eppure oggi Cardona è un elemento fondamentale del gioco della Colombia. Il classe '92 ha caratteristiche abbastanza particolari: è alto e strutturato fisicamente, ma decisamente non un mostro di condizione (per citare Adani "sembra avere un fisico da amatore attempato della bassa emiliana") e non veloce sull'allungo. Tecnicamente però è un giocatore superiore, capace di gestire la palla, dribblare, cambiare gioco, cercare l'assist e soprattutto con un connubio di qualità e potenza di tiro rarissimo. Per la manovra è un punto di riferimento perchè aiuta James nella regia e completa il gioco di Cuadrado. In più tatticamente può spostarsi a fare il trequartista, col 10 che si allarga, oppure abbassarsi a fare l'interno in un centrocampo a tre, dando nuovi equilibri alla squadra. È un ragazzo in crescita anche per personalità, e malgrado sia un giocatore estremamente sudamericano per ritmi non mi stupirei di vederlo in Europa a breve.

Pekerman in un solo anno ha stravolto la sua Colombia, cambiando completamente i suoi riferimenti e costruendo tutto attorno a James Rodriguez. I Cafeteros sono tornati.